lunedì 8 dicembre 2008

Per tutti quelli che si stanno chiedendo come mai l'imposta comunale...



Per tutti coloro che si stanno chiedendo come mai l’imposta comunale sull’immondizia sia aumentata notevolmente, eccovi delle semplici e pratiche risposte.

Per anni ci siamo accontentati di decorazioni natalizie semplici, banali e fuori luogo. Faccio un esempio: ma cosa diavolo erano quelle illuminazioni sparse qua e là per via Roma? E vogliamo parlare di quell’abete gigante che negli ultimi anni ha calato la sua austera ombra su tutta la piazza? Le passate amministrazioni credevano davvero che bastassero solo queste due semplici sciocchezze per portare nel nostro paese l’atmosfera del Natale? I cittadini erano stanchi. Depressi. Consumati dall’idea del classico e del monotono. Avevano bisogno di qualcosa di nuovo, moderno, più incline ai tempi che stiamo vivendo. Avevano bisogno di cambiamento. Così nel palazzo comunale, un uomo con il suo maglioncino rosa salmone, sfregandosi le mani, si interrogava su giganteschi quesiti esistenziali, sul come riportare nel cuore dei gioiesi lo spirito del Natale. Non riusciva a venirne a capo. Così alzò la cornetta e chiamò il caro vecchio Babbo Natale. L’uomo era disperato. “Babbo- gli chiese- ma com’è che i miei cittadini non sentono più la magia del Natale?”
“Hai provato a chiedere a loro?”
“Certo- rispose l’uomo del cambiamento- io non prendo mica decisioni senza interpellare i miei cittadini!”
“E loro, cosa ti hanno risposto?”
“Che forse è perché si è persa la vera essenza del Natale, cioè la generosità, l’altruismo, la fratellanza, il donare agli altri!”
“E quindi?” chiese il caro Vecchietto, sperando che Mr Cambiamento arrivasse da solo alle sue risposte.
“E quindi abbiamo praticamente regalato alla Lum, una povera, bisognosa, università PRIVATA, uno stabile comunale di recente ristrutturazione!”
Babbo Natale rimase un po’ perplesso, l’uomo non riusciva proprio a giungere da solo alle sue risposte.
“Forse hanno bisogno di un salto nel passato, prova a riportarli all’atmosfera di quando erano Bambini!”
L’uomo si fermò a riflettere un po’ e poi ebbe un’illuminazione. Certo! Perché non ci aveva pensato prima! Riportare i cittadini ai tempi della loro infanzia, quando il Natale era vero, sentito con il cuore. Così chiuse la chiamata, senza neanche ringraziare Babbo Natale (ma cosa volete, che venga ringraziato un uomo vestito di rosso con la barba incolta??? Ma siete matti????), chiamò immediatamente i suoi collaboratori e disse loro: “Presto!!! Riempite Via Roma di Ridenti (vi consiglio di andare a verificare con i vostri occhi quanto siano davvero ridenti!) Palme! Che si stenda un tappeto rosso come accade ad Hollywood! Che per ogni strada si diffondano canti di Gioioso Natale! Che si stampino Manifesti con il countdown verso il 25 dicembre, un po’ come quelli che abbiamo fatto, sempre con i soldi dei contribuenti, per ripristinare il doppio senso in via Giuseppe di Vittorio!”
“Ma Sindaco, non ci sono i soldi!!!!”
“Aumentiamo un’imposta qua, un’imposta là…bacchetta magica: Ed il gioco è fatto!!!”
“Ma i cittadini saranno d’accordo???”
“Certo- rispose l’uomo del cambiamento- io non prendo mica decisioni senza interpellare i miei cittadini!”; poi un altro lampo di genio. Gli risuonarono in mente le parole di Babbo il rosso. Un salto nel passato…quando erano bambini…Ma perché non ci aveva pensato prima???
Quando erano bambini c’era anche IL MERCATO COPERTO IN PIAZZA. Così ordinò: “Presto, vendete il vecchio mercato coperto, che se ne costruisca uno nuovo, cioè vecchio, cioè… avete capito…però in piazza!”
“Ma sindaco, i cittadini penseranno che questa sia una magagna sulla speculazione edilizia! Non saranno d’accordo!”
““Certo che saranno d’accordo - affermò orgoglioso l’uomo dal maglioncino color rosa salmone - io non prendo mica decisioni senza interpellare i miei cittadini!”
“Ma lei non li ha mica interpellati!”
“Certo che li ho interpellati: Mi hanno votato!!!”
E fu così che, con qualche aumento sull’imposta comunale sui rifiuti che i cittadini furono ben contenti di pagare, Gioia del colle ebbe di nuovo un fantastico e sereno Natale.

sabato 15 novembre 2008

CHE FURBETTO QUEL BRUNETTA

di Emiliano Fittipaldi e Marco Lillo (da L'Espresso)

La trasferta a Teramo per diventare professore. La casa con sconto dall'ente. Il rudere che si muta in villa. Le assenze in Europa e al Comune. Ecco la vera storia del ministro anti-fannulloni



La prima immagine di Renato Brunetta impressa nella memoria di un suo collega è quella di un giovane docente inginocchiato tra i cespugli del giardino dell'università a fare razzia di lumache. Lì per lì i professori non ci fecero caso, ma quella sera, invitati a cena a casa sua, quando Brunetta servì la zuppa, saltarono sulla sedia riconoscendo i molluschi a bagnomaria. Che serata. La vera sorpresa doveva ancora arrivare. Sul più bello lo chef si alzò in piedi e, senza un minimo di ironia, annunciò solennemente: "Entro dieci anni vinco il Nobel. Male che vada, sarò ministro". Eravamo a metà dei ruggenti anni '80, Brunetta era solo un professore associato e un consulente del ministro Gianni De Michelis.

Ci ha messo 13 anni in più, ma alla fine l'ex venditore ambulante di gondolette di plastica è stato di parola. In soli sette mesi di governo è diventato la star più splendente dell'esecutivo Berlusconi. La guerra ai fannulloni conquista da mesi i titoli dei telegiornali. I sondaggi lo incoronano - parole sue - 'Lorella Cuccarini' del governo, il più amato dagli italiani. Brunetta nella caccia alle streghe contro i dipendenti pubblici non conosce pietà. Ha ristretto il regime dei permessi per i parenti dei disabili, sogna i tornelli per controllare i magistrati nullafacenti e ha falciato i contratti a termine. Dagli altri pretende rigore, meritocrazia e stakanovismo, odia i furbi e gli sprechi di denaro pubblico, ma il suo curriculum non sempre brilla per coerenza. A 'L'espresso' risulta che i dati sulle presenze e le sue attività al Parlamento europeo non ne fanno un deputato modello. Anche la carriera accademica non è certo all'altezza di un Nobel. Ma c'è un settore nel quale l'ex consigliere di Bettino Craxi e Giuliano Amato ha dimostrato di essere davvero un guru dell'economia: la ricerca di immobili a basso costo, dove ha messo a segno affari impossibili per i comuni mortali.


Chi l'ha visto Appena venticinquenne, Brunetta entra nel dorato mondo dei consulenti (di cui oggi critica l'abuso). Viene nominato dall'allora ministro Gianni De Michelis coordinatore della commissione sul lavoro e stende un piano di riforma basato sulla flessibilità che gli costa l'odio delle Brigate rosse e lo costringe a una vita sotto scorta. Poi diventa consigliere del Cnel, in area socialista. Nel 1993, durante Mani Pulite firma la proposta di rinnovamento del Psi di Gino Giugni. Nel 1995 entra nella squadra che scrive il programma di Forza Italia e nel 1999 entra nel Parlamento europeo.

Proprio a Strasburgo, se avessero applicato la 'legge dei tornelli' invocata dal ministro, il professore non avrebbe fatto certo una bella figura. Secondo i calcoli fatti da 'L'espresso', in dieci anni è andato in seduta plenaria poco più di una volta su due. Per la precisione la frequenza tocca il 57,9 per cento. Con questi standard un impiegato (che non guadagna 12 mila euro al mese) potrebbe restare a casa 150 giorni l'anno. Ferie escluse. Lo stesso ministro ha ammesso in due lettere le sue performance: nella legislatura 1999-2004 ha varcato i cancelli solo 166 volte, pari al 53,7 per cento delle sedute totali. "Quasi nessun parlamentare va sotto il 50, perché in tal caso l'indennità per le spese generali viene dimezzata", spiegano i funzionari di Strasburgo. Nello stesso periodo il collega Giacomo Santini, Pdl, sfiorava il 98 per cento delle presenze, il leghista Mario Borghezio viaggiava sopra l'80 per cento. Il trend di Brunetta migliora nella seconda legislatura, quando prima di lasciare l'incarico per fare il ministro firma l'elenco (parole sue) 148 volte su 221. Molto meno comunque di altri colleghi di Forza Italia: nello stesso periodo Gabriele Albertini è presente 171 volte, Alfredo Antoniozzi e Francesco Musotto 164, Tajani, in veste di capogruppo, 203.

La produttività degli europarlamentari si misura dalle attività. In aula e in commissione. Anche in questo caso Brunetta non sembra primeggiare: in dieci anni ha compilato solo due relazioni, i cosiddetti rapporti di indirizzo, uno dei termometri principali per valutare l'efficienza degli eletti a Strasburgo. L'ultima è del 2000: nei successivi otto anni il carnet del ministro è desolatamente vuoto, fatta eccezione per le interrogazioni scritte, che sono - a detta di tutti - prassi assai poco impegnativa. Lui ne ha fatte 78. Un confronto? Il deputato Gianni Pittella, Pd, ne ha presentate 126. Non solo. Su 530 sedute totali, Brunetta si è alzato dalla sedia per illustrare interrogazioni orali solo 12 volte, mentre gli interventi in plenaria (dal 2004 al 2008) si contano su due mani. L'ultimo è del dicembre 2006, in cui prende la parola per "denunciare l'atteggiamento scortese e francamente anche violento" degli agenti di sicurezza: pare non lo volessero far entrare. Persino gli odiati politici comunisti, che secondo Brunetta "non hanno mai lavorato in vita loro", a Bruxelles faticano molto più di lui: nell'ultima legislatura il no global Vittorio Agnoletto e il rifondarolo Francesco Musacchio hanno percentuali di presenza record, tra il 90 e il 100 per cento.

Se la partecipazione ai lavori d'aula non è da seguace di Stakanov, neanche in commissione Brunetta appare troppo indaffarato. L'economista sul suo sito personale ci fa sapere che, da vicepresidente della commissione Industria, tra il 1999 e il 2001 ha partecipato alle riunioni solo la metà delle volte, mentre nel biennio 2002-2003, da membro titolare della delicata commissione per i Problemi economici e monetari, si è fatto vedere una volta su tre. Strasburgo è lontana dall'amata Venezia, ma non si tratta di un problema di distanza. A Ca' Loredan, nel municipio dove è stato consigliere comunale e capo dell'opposizione dal 2000 al 2005, il nemico dei fannulloni detiene il record. Su 208 sedute si è fatto vedere solo in 87 occasioni: quattro presenze su dieci, il peggiore fra tutti i 47 consiglieri veneziani.

Il bello del mattone
LA MAPPA DELLE PROPRIETA' DI BRUNETTA
Brunetta spendeva invece molto tempo libero per mettere a segno gli affari immobiliari della sua vita. Oggi il ministro possiede un patrimonio composto da sei immobili (due ereditati a metà con il fratello) sparsi tra Venezia, Roma, Ravello e l'Umbria, per un valore di svariati milioni di euro. "Mi piacciono le case e le ho pagate con i mutui", ha sempre detto. Effettivamente per comprare e ristrutturare la magione di 420 metri quadrati con terreno e piscina in Umbria, a Monte Castello di Vibio, vicino a Todi, Brunetta ha contratto un mutuo di 600 milioni di vecchie lire del 1993. Ma per acquistare la casa di Roma e quella di Ravello, visti i prezzi ribassati, non ne ha avuto bisogno. Cominciamo da quella di Roma. Alla fine degli anni Ottanta il rampante professore aveva bisogno di un alloggio nella capitale, dove soggiornava sempre più spesso per la sua attività politica. Un comune mortale sarebbe stato costretto a rivolgersi a un'agenzia immobiliare pagando le stratosferiche pigioni di mercato. Brunetta no.
Come tanti privilegiati, riesce a ottenere un appartamento dall'Inpdai, l'ente pubblico che dovrebbe sfruttare al meglio il suo patrimonio immobiliare per garantire le pensioni ai dirigenti delle aziende. Invece, in quel tempo, come 'L'espresso' ha raccontato nell'inchiesta 'Casa nostra' del 2007, gli appartamenti più belli finivano ai soliti noti. Brunetta incluso. Un affitto che in quegli anni era un sogno per tutti i romani, persino per i dirigenti iscritti all'Inpdai ai quali sarebbe spettato. Lo racconta Tommaso Pomponi, un ex dirigente della Rai ora in pensione, che ha presentato domanda alla fine degli anni Ottanta: "Nonostante fossi stato sfrattato, non ottenni nessuna risposta. Contattai presidente e direttore generale, scrissi lettere di protesta, inutilmente". Pomponi ha pagato per anni due milioni di lire di affitto e poi ha comprato a prezzi di mercato, come tutti. Il ministro, invece, dopo essere stato inquilino per più di 15 anni con canone che non ha mai superato i 350 euro al mese, ha consolidato il suo privilegio rendendolo perpetuo: nel novembre 2005 il patrimonio degli enti infatti è stato ceduto. Brunetta compra insieme agli altri inquilini ottenendo uno sconto superiore al 40 per cento sul valore di stima. Alla fine il prezzo spuntato dal grande moralizzatore del pubblico impiego è di 113 mila euro, per una casa di 4 vani catastali, situata in uno dei punti più belli di Roma. Si tratta di un quarto piano con due graziosi balconcini e una veranda in legno. Brunetta vede le rovine di Roma e il parco dell'Appia antica. Un appartamento simile a quello del ministro vale circa mezzo milione di euro: con i suoi 113 mila euro l'economista avrebbe potuto acquistare un box.

Un tuffo in Costiera Anche il buen retiro di Ravello è stato un affare immobiliare da Guinness. Brunetta, che si autodefinisce "un genio", diventa improvvisamente modesto quando passa in rassegna i suoi possedimenti campani. "Una proprietà scoscesa", ha definito questa splendida villa di 210 metri quadrati catastali immersa in 600 metri di giardino e frutteto. Seduto nel suo patio il ministro abbraccia con lo sguardo il blu e il verde, Ravello e Minori.

Per comprare i ruderi che ha poi ristrutturato ha speso 65 mila euro tra il 2003 e il 2005. "Quanto?", dice incredula Erminia Sammarco, titolare dell'agenzia immobiliare Tecnocasa di Amalfi: "Mi sembra impossibile: a quel prezzo un mio cliente ha venduto una stalla con un porcile". Oggi un rudere di 50 metri quadri costa circa 350 mila euro, e una villa simile a quella dell'economista supera di gran lunga il milione di euro. Il ministro ha certamente speso molto per la pregevole ristrutturazione, tanto che ha preso un mutuo da 300 mila euro poco dopo l'acquisto del 2003 che finirà di pagare nel 2018, ma ha indubbiamente moltiplicato l'investimento iniziale.

Ma come si fa a trasformare una catapecchia senza valore in una villa di pregio? 'L'espresso' ha consultato il catasto e gli atti pubblici scoprendo così che Brunetta ha comprato due proprietà distinte per complessivi sette vani catastali, affidando i lavori di restauro alla migliore ditta del luogo. Dopo la cura Brunetta, al posto dei ruderi si materializza una villetta su tre livelli su 172 metri quadrati più dépendance, rifiniture in pietra e sauna in costruzione. Per il catasto, invece, l'alloggio passa da civile a popolare. In compenso, i sette vani sono diventati 12 e mezzo. Come è stata possibile questa lievitazione? "Diversa distribuzione degli spazi interni", dicono le carte. La signora Lidia Carotenuto, che fino al 2002 era proprietaria del piano inferiore, ricorda con un po' di malinconia: "La mia casa era composta di due stanzette, al massimo saranno stati 40 metri quadrati e sopra c'era un altro appartamento (che misurava 80 metri catastali, ndr) in rovina. So che ora il Comune di Ravello sta costruendo una strada che passerà vicino all'abitazione del ministro. Io non avrei venduto nulla se l'avessero fatta prima...". A rappresentare Brunetta nell'atto di acquisto della dépendance nel 2005 è stato il geometra Nicola Fiore, che aveva seguito in precedenza anche le pratiche urbanistiche. Fiore era all'epoca assessore al Bilancio del comune, guidato dal sindaco Secondo Amalfitano, del Partito democratico. I rapporti con il primo cittadino è ottimo: Brunetta entra nella Fondazione Ravello. E quest'anno, dopo le elezioni, Amalfitano fa il salto della barricata, entra nel Pdl e lascia la Costiera per Roma dove viene nominato suo consigliere ministeriale.

Il Nobel mancato "Io sono un professore di economia del lavoro, l'ho guadagnato con le unghie e con i denti. Sono uno dei più bravi d'Italia, forse d'Europa", ha spiegato Brunetta ad Alain Elkann, che di rimbalzo lo ha definito "un maestro della pasta e fagioli" prima di chiedergli la ricetta del piatto. L'economista Ada Becchi Collidà, che ha lavorato nello stesso dipartimento per otto anni, dice senza giri di parole che "Renato non è uno studioso. È prevalentemente un organizzatore, che sa dare il meglio di sé quando deve mettere insieme risorse". Alla facoltà di Architettura di Venezia entra nel 1982, dopo aver guadagnato l'idoneità a professore associato in economia l'anno precedente. Come ha ricordato in Parlamento il deputato democratico Giovanni Bachelet, Brunetta non diventa professore con un vero concorso, ma approfitta di una "grande sanatoria" per i precari che gravitavano nell'università. Una definizione contestata dal ministro, che replica: avevo già tutti i titoli.

In cattedra Secondo il curriculum pubblicato sul sito dell'ateneo di Tor Vergata (dove insegna dal 1991), al tempo il giovane Brunetta poteva vantare poche pubblicazioni: una monografia di 500 pagine e due saggi. Il primo era composto di dieci pagine ed era scritto a sei mani, il secondo era un pezzo sulla riduzione dell'orario edito da 'Economia&Lavoro', la rivista della Fondazione Brodolini, di area socialista, che Brunetta stesso andrà a dirigere nel 1980. Tutto qui? Nel mondo della ricerca esistono diverse banche dati per valutare il lavoro di uno studioso. Oggi Brunetta si trova in buona posizione su quella Econlit, che misura il numero delle pubblicazioni rilevanti: 30, più della media dei suoi colleghi. La musica cambia se si guarda l'indice Isi-Thompson, quello che calcola le citazioni che un autore ha ottenuto in lavori successivi: una misura indiretta e certo non infallibile della qualità di una pubblicazione, ma che permette di farsi un'idea sull'importanza di un docente. L'indice di citazioni di Brunetta è fermo sullo zero.

Le valutazioni degli indicatori sono discutibili, ma di sicuro il mondo accademico non lo ha mai amato: "L'università ha sempre visto in lui il politico, non lo scienziato", ricorda l'ex rettore dello Iuav di Venezia, Marino Folin. Nel 1991, da professore associato, riesce a trasferirsi all'Università di Tor Vergata. In attesa del Nobel, tenta almeno di diventare professore ordinario partecipando al concorso nazionale del 1992. In un primo momento viene inserito tra i 17 vincitori. Ma un commissario, Bruno Sitzia, rimette tutto in discussione. Scrive una lettera e, senza riferirsi a Brunetta, denuncia la lottizzazione e la poca trasparenza dei criteri di selezione. "Si discusse anche di Brunetta, e ci furono delle obiezioni", ricorda un commissario che chiede l'anonimato: "La situazione era curiosa: la maggioranza del collegio era favorevole a includere l'attuale ministro, ma non per i suoi meriti, bensì perché era stato trovato l'accordo che faceva contenti tutti. Comunque c'erano candidati peggiori di lui". Il braccio di ferro durò mesi, poi il presidente si dimise. E la nuova commissione escluse Brunetta. Il professore 'migliore d'Europa' viene bocciato. Un'umiliazione insopportabile. Così fa ricorso al Tar, che gli dà torto. Poi si appella al Consiglio di Stato, ma poco prima della decisione si ritira in buon ordine. Nel 1999 era riuscito infatti a trovare una strada per salire sulla cattedra. Un lungo giro che valica l'Appennino e si arrampica alle pendici del Gran Sasso, ma che si rivela proficuo. È a Teramo che ottiene infine il riconoscimento: l'alfiere della meritocrazia, bocciato al concorso nazionale, riesce a conquistare il titolo di ordinario grazie all'introduzione dei più facili concorsi locali. Nel 1999 partecipa al bando di Teramo, la terza università d'Abruzzo. Il posto è uno solo ma vengono designati tre vincitori. La cattedra va al candidato del luogo ma anche gli altri due ottengono 'l'idoneità'. Brunetta è uno dei due e torna a Tor Vergata con la promozione. Un'ultima nota. A leggere le carte del concorso, fino al 2000 Brunetta "è professore associato a Tor Vergata". La stranezza è che il curriculum ufficiale - pubblicato sul sito della facoltà del ministro - lo definisce "professore ordinario dal 1996". Quattro anni prima: errore materiale o un nuovo eccesso di ego del Nobel mancato?

Hanno collaborato Michele Cinque e Alberto Vitucci

(13 novembre 2008)

Segnalato da Gino Paccione

lunedì 10 novembre 2008

LA SINISTRA



Le ragazze e i ragazzi che in questi giorni portano la loro protesta in tutte le piazze del paese per una scuola che li aiuti a crearsi un futuro ci dicono che la speranza di un’altra Italia è possibile. Che è possibile reagire alla destra che toglie diritti e aumenta privilegi. Che è possibile rispondere all’insulto criminale che insanguina il Mezzogiorno e vuole ridurre al silenzio le coscienze più libere. Che è possibile dare dignità al lavoro, spezzando la logica dominante che oggi lo relega sempre più a profitto e mercificazione. Che è possibile affermare la libertà delle donne e vivere in un paese ove la laicità sia un principio inviolabile. Che è possibile lavorare per un mondo di pace. Che è possibile, di fronte all’offensiva razzista nei confronti dei migranti, rispondere - come fece Einstein - che l’unica razza che conosciamo è quella umana. Che è possibile attraverso una riconversione ecologica dell’economia contrastare i cambiamenti climatici, riducendone gli effetti ambientali e sociali. Che è possibile, dunque, reagire ad una politica miserabile la quale, di fronte alla drammatica questione del surriscaldamento del pianeta, cerca di bloccare le scelte dell’Europa in nome di una cieca salvaguardia di ristretti interessi.
Cambiare questo paese è possibile. A patto di praticare questa speranza che oggi cresce d’intensità, di farla incontrare con una politica che sappia anche cambiare se stessa per tradurre la speranza di oggi in realtà. E’ questo il compito primario di ciò che chiamiamo sinistra.
Viviamo in un paese e in un tempo che hanno bisogno di un ritrovato impegno e di una nuova sinistra, ecologista, solidale e pacifista. La cronaca quotidiana dei fatti è ormai una narrazione impietosa dell’Italia e della crisi delle politiche neoliberiste su scala mondiale. Quando la condizione sociale e materiale di tanta parte della popolazione precipita verso il rischio di togliere ogni significato alla parola futuro; quando cittadinanza, convivenza, riconoscimento dell’altro diventano valori sempre più marginali; quando le donne e gli uomini di questo paese vedono crescere la propria solitudine di fronte alle istituzioni, nei luoghi di lavoro – spesso precario, talvolta assente – come in quelli del sapere; quando tutto questo accade nessuna coscienza civile può star ferma ad aspettare. Siamo di fronte ad una crisi che segna un vero spartiacque. Crollano i dogmi del pensiero unico che hanno alimentato le forme del capitalismo di questi ultimi 20 anni. Questa crisi rende più che mai attuale il bisogno di sinistra, se essa sarà in grado di farsi portatrice di una vera alternativa di società a livello globale.
E’ alla politica che tocca il compito, qui ed ora, di produrre un’idea, un progetto di società, un nuovo senso da attribuire alle nostre parole. Ed è la politica che ha il compito di dire che un’alternativa allo stato presente delle cose è necessaria ed è possibile. La destra orienta la sua pesante azione di governo – tutto è già ben chiaro in soli pochi mesi – sulla base di un’agenda che ha nell’esaltazione persino esasperata del mercato e nello smantellamento della nostra Costituzione repubblicana i capisaldi che la ispirano. Cosa saranno scuola e formazione, ambiente, sanità e welfare, livelli di reddito e qualità del lavoro, diritti di cittadinanza e autodeterminazione di donne e uomini nell’Italia di domani, quel domani che è già dietro l’angolo, quando gli effetti di questa destra ora al governo risulteranno dirompenti e colpiranno dritto al cuore le condizioni di vita, già ora così difficili, di tante donne e uomini?
E’ da qui che nasce l’urgenza e lo spazio – vero, reale, possibile, crescente – di una nuova sinistra che susciti speranza e chiami all’impegno politico, che lavori ad un progetto per il paese e sappia mobilitare anche chi è deluso, distratto, distante. Una sinistra che rifiuti il rifugio identitario fine a sé stesso, la fuga dalla politica, l’affannosa ricerca dei segni del passato come nuovi feticci da agitare verso il presente. Una sinistra che assuma la sconfitta di aprile come un momento di verità, non solo di debolezza. E che dalle ragioni profonde di quella sconfitta vuole ripartire, senza ripercorrerne gli errori, le presunzioni, i limiti. Una sinistra che guardi all’Europa come luogo fondamentale del proprio agire e di costruzione di un’alternativa a questa globalizzazione. Una sinistra del lavoro capace di mostrare come la sua sistematica svalorizzazione sia parte decisiva della crisi economica e sociale che viviamo.
Per far ciò pensiamo a una sinistra che riesca finalmente a mescolare i segni e i semi di più culture politiche per farne un linguaggio diverso, un diverso sguardo sulle cose di questo tempo e di questo mondo. Una politica della pace, non solo come ripudio della guerra, anche come quotidiana costruzione della cultura della non violenza e della cooperazione come alternativa alla competizione. Una sinistra dei diritti civili, delle libertà, dell’uguaglianza e delle differenze. Una sinistra che non sia più ceto politico ma luogo di partecipazione, di ricerca, di responsabilità condivise. Che sappia raccogliere la militanza civile, intellettuale e politica superando i naturali recinti dei soggetti politici tradizionali. E che si faccia carico di un’opposizione rigorosa , con l’impegno di costruire un nuovo, positivo campo di forze e di idee per il paese. La difesa del contratto nazionale di lavoro, che imprese e governo vogliono abolire per rendere più diseguali e soli i lavoratori e le lavoratrici è per noi l’immediata priorità, insieme all’affermazione del valore pubblico e universale della scuola e dell’università e alla difesa del clima che richiede una vera e propria rivoluzione ecologica nel modo di produrre e consumare.
Lavorare da subito ad una fase costituente della sinistra italiana significa anche spezzare una condizione di marginalità – politica e persino democratica – e scongiurare la deriva bipartitista , avviando una riforma delle pratiche politiche novecentesche.
L’obiettivo è quello di lavorare a un nuovo soggetto politico della sinistra italiana attraverso un processo che deve avere concreti elementi di novità: non la sommatoria di ceti politici ma un percorso democratico, partecipativo, inclusivo. Per operare da subito promuoviamo l’associazione politica “Per la Sinistra”, uno strumento leggero per tutti coloro che sono interessati a ridare voce, ruolo e progetto alla sinistra italiana, avviando adesioni larghe e plurali.
Fin da ora si formino nei territori comitati promotori provvisori, aperti a tutti coloro che sono interessati al processo costituente , con il compito di partecipare alla realizzazione, sabato 13 dicembre, di una assemblea nazionale. Punto di partenza di un processo da sottoporre a gennaio a una consultazione di massa attorno a una carta d’intenti, un nome, un simbolo, regole condivise. Proponiamo di arrivare all’assemblea del 13 dicembre attraverso un calendario di iniziative che ci veda impegnati, già da novembre, a costruire un appuntamento nazionale sulla scuola e campagne sui temi del lavoro e dei diritti negati, dell’ambiente e contro il nucleare civile e militare e per lo sviluppo delle energie rinnovabili.
Sappiamo bene che non sarà un percorso semplice né breve, che richiederà tempo, quel tempo che è il luogo vero dove si sviluppa la ricerca di altri linguaggi, la produzione di nuova cultura politica, la formazione di nuove classi dirigenti. Una sinistra che sia forza autonoma – sul piano culturale, politico, organizzativo – non può prescindere da ciò. Ma il tempo di domani è già qui ed è oggi che dobbiamo cominciare a misurarlo. Ecco perché diciamo che questo nostro incontro segna, per noi che vi abbiamo preso parte, la comune volontà di un’assunzione individuale e collettiva di responsabilità. La responsabilità di partecipare a un percorso che finalmente prende avvio e di voler contribuire ad estenderlo nelle diverse realtà del territorio, di sottoporlo ad una verifica larga, di svilupparlo lavorando sui temi più sensibili che riguardano tanta parte della popolazione e ai quali legare un progetto politico della sinistra italiana, a cominciare dalla pace, dall’equità sociale e dal lavoro, dai diritti e dall’ambiente alla laicità.
Noi ci impegniamo oggi in questo cammino. A costruirlo nel tempo che sarà richiesto. A cominciare ora.

Roma, 7 novembre 2008


Primi firmatari:
Mario Agostinelli, Vincenzo Aita, Ritanna Armeni, Alberto Asor Rosa, Angela Azzaro, Fulvia Bandoli, Katia Belillo, Giovanni Berlinguer, Piero Bevilacqua, Jean Bilongo, Maria Luisa Boccia, Luca Bonaccorsi, Sergio Brenna, Luisa Calimani, Antonio Cantaro, Luciana Castellina, Giusto Catania, Paolo Cento, Giuseppe Chiarante, Raffaella Chiodo, Marcello Cini, Lisa Clark, Maria Rosa Cutrufelli, Pippo Delbono, Vezio De Lucia, Paolo De Nardis, Loredana De Petris, Elettra Deiana, Carlo De Sanctis, Arturo Di Corinto, Titti Di Salvo, Daniele Farina, Claudio Fava, Carlo Flamigni, Pietro Folena, Enrico Fontana, Marco Fumagalli, Luciano Gallino, Franco Giordano, Giuliano Giuliani, Umberto Guidoni, Leo Gullotta, Margherita Hack, Paolo Hutter, Francesco Indovina, Rosa Jijon, Francesca Koch, Wilma Labate, Simonetta Lombardo, Francesco Martone, Graziella Mascia, Gianni Mattioli, Danielle Mazzonis, Gennaro Migliore, Adalberto Minucci, Filippo Miraglia, Marco Montemagni, Serafino Murri, Roberto Musacchio, Pasqualina Napoletano, Paolo Naso, Diego Novelli, Alberto Olivetti, Moni Ovadia, Italo Palumbo, Giorgio Parisi, Luca Pettini, Elisabetta Piccolotti, Paolo Pietrangeli, Fernando Pignataro, Bianca Pomeranzi, Alessandro Portelli, Alì Rashid, Luca Robotti, Massimo Roccella, Stefano Ruffo, Mario Sai, Simonetta Salacone, Massimo L. Salvadori, Edoardo Salzano, Bia Sarasini, Scipione Semeraro, Patrizia Sentinelli, Massimo Serafini, Tore Serra, Giuliana Sgrena, Aldo Tortorella, Gabriele Trama, Mario Tronti, Nichi Vendola

venerdì 31 ottobre 2008

NON HAI UN SOLO NOME...



di Nichi Vendola, dal suo blog.

Non hai un solo nome, sei un soggetto plurimo, sei una moltitudine, sei maschile e femminile. Eppure voglio
scriverti pensandoti come un singolo, anzi come una singola. Si, come una studentessa: e non certo per pelosa galanteria, ma perché la “cosa” che incarni è così poco militarizzata e gerarchizzata che mi offre una declinazione al “femminile” dei pensieri che mi ispiri. E dunque, cara studentessa anti-Gelmini: ti spio, ti annuso, provo a decifrare il tuo lessico, cerco di indovinare i tuoi gusti e le tue passioni. Hai la faccia anche della mia piccola Ida, che è andata al suo battesimo con la piazza con la serietà con cui ci si presenta ad un esame scolastico. Il suo primo corteo. Mi sono imposto, per una questione di igiene politica, di non fare paragoni (il 68, il 77, l’85, la pantera): quei paragoni che dicono molto della nostra vecchiezza e poco della giovinezza di chi compone le forme nuove della ribellione al potere. Ho cercato di non sovrapporre la mia epopea, la mia biografia, la mia ideologia, al corpo sociale che tu rappresenti, al processo culturale che tu costruisci, alla radicale contraddizione che tu fai esplodere con la fantasia e il sarcasmo dei tuoi codici comunicativi e della tua contro-informazione. Tu sei, seppure ancora appesa a più fili di adolescenza, una domanda matura e irriducibile di democrazia: e hai capito che per non essere ridotta alla volgarità del tele-voto e della pubblicità, la democrazia non può che vivere e rigenerarsi nel rapporto con le culture, nella socializzazione dei saperi critici, nella ri-tessitura quotidiana delle reti di incivilimento e dei nodi di convivialità. La scuola è il fondamento di ogni democrazia. Lo è quando insegna ai bimbi delle elementari l’elementare rispetto per ogni essere umano: precetto che forse evaporerebbe in qualche istituto scolastico di rito padano. Lo è quando riannoda i fazzoletti della memoria storica e tramanda narrazioni, saperi e valori. Lo è anche quando la scuola fuoriesce da sé, straripa nel conflitto politico-sociale, invade la piazza,
trasferisce la cattedra sul marciapiede, proietta le proprie attitudini pedagogiche sui territori, rompe la separatezza dei suoi microcosmi e investe con domande di senso l’intera società. Dimmi che scuola hai e ti dirò che società sei. C’è chi immagina, anzi c’è chi vuole apparati della formazione che preparino alla precarietà esistenziale e produttiva: e dunque servono scuole e università dequalificate. Le classi dirigenti (forse è più appropriato dire “classi dominanti”) si riproducono invece per partenogenesi, ben protette in quei laboratori della clonazione sociale che sono scuole e università private. Cara studentessa, queste cose tu le hai scoperte con semplicità, le hai spiegate alla tua famiglia, le hai narrate con compostezza nelle assemblee, hai rivendicato la tua centralità (la centralità della pubblica istruzione) contro chi “cogliendo l’attimo” dell’egemonia berlusconiana voleva e vuole di colpo annullare un secolo di battaglia delle idee, di esperienze gigantesche di riorganizzazione sociale e scolastica: hai ben compreso che la Gelmini non è folclore, ma è il punto più insidioso dell’offensiva della destra, è una sorta di don Lorenzo Milani rovesciato, è l’apologia di un “piccolo mondo antico” abitato da voti in condotta e grembiulini monocromatici dietro la cui scenografia ottocentesca si muove la modernità barbarica del mercato: che non ha bisogna di individui colti, e liberi perché padroni delle conoscenze, ma ha bisogno di piccole libertà in forma di merce per individui ammaestrati alla competizione e diseducati alla cooperazione.
Carissima studentessa, la lezione più importante che ho appreso studiando le vicende del secolo in cui sono nato è che l’obbedienza non è una virtù assoluta. Se è ossequio ad un potere cieco, ad un codice violento, ad un paradigma di morte, allora bisogna ribellarsi, allora bisogna scegliere le virtù civiche della disobbedienza. Non si può obbedire alla politica del cinismo affaristico e classista. Al contrario, dobbiamo cercare la politica che ci aiuta ad essere la forza ostetrica che fa nascere il futuro. Volevo ringraziarti perché, spiandoti e annusandoti, non ho pensato: questa qui è dalla mia parte. Ho pensato che la mia parte (stavo per dire il mio partito) è nello spazio riempito dai tuoi gesti, dalle tue parole, dalla forza inaudita di tutte le tue libertà.

domenica 26 ottobre 2008

TERRA MADRE LA RIVINCITA



«Il liberismo è riuscito a speculare anche sul cibo»
Incontro con Carlo Petrini, presidente di Slow Food

Francesco Paternò da il Manifesto

È diventato una specie di papa Carlo Petrini, detto Carlin, presidente di Slow Food International, fondatore e molto altro ancora. Riceve per cinque giorni politici e contadini, cuochi e giornalisti da tutto il mondo e per tutti ha un verbo, una storia, un aneddoto. All'ambasciatrice australiana presso il Quirinale che s'infila nella nostra stanza per un saluto, Carlin racconta di quell'allevatore di mucche che ad Adelaide lo invita a visitare la sua tenuta. E lo fa accomodare su un aereo. Il Salone del Gusto e Terra Madre sono il suo regno, sospeso tra cielo e terra a spiegarci perché l'agricoltura e i suoi prodotti devono tornare al centro della produzione e della cultura.
Parliamo di economia reale, quella che Slow Food sta portando a Torino in questi giorni?
Questa è in effetti l'economia reale del cibo, che negli ultimi 50 anni ha perso valore al punto che è diventato quasi un'appendice ludica e parlare di gastronomia rischia di sconfinare nell'immaginario collettivo in un divertissment elitario. Invece la storia ci ricorda quanto l'umanità ha lavorato, ha sofferto e fatto delle guerre per garantire la nutrizione e quanto ancora siamo dentro questo contesto. Riconciliare la gastronomia vera con l'importanza del cibo, dell'agricoltura e dei saperi tradizionali, questo stiamo facendo. Tanto più che oggi una moltitudine di persone si trova in una fase storica particolare gravissima, determinata da uno sconquasso di natura finanziaria. Il liberismo, dopo aver speculato sulle abitazioni della gente, dell'energia e del petrolio, come colpo di coda prima che la bolla scoppiasse, è riuscito a speculare ancora sul cibo. Determinando gli aumenti di derrate alimentari fondamentali per milioni di persone. E colpendo la popolazione malnutrita, quasi un sesto dei viventi, aumentata per queste speculazioni.
Ora la bolla è scoppiata e noi la viviamo con duplice sentimento. Da un lato con preoccupazione per un futuro di crisi e di difficoltà soprattutto per i meno abbienti, ma dall'altro anche con un senso di liberazione. Per la fine di questa logica, diventata quasi un pensiero unico, mentre l'economia di sussistenza veniva considerata marginale.
Mica vorrai dire che è la rivincita di Terra Madre?
Terra Madre in qualche modo assapora questa sconfitta storica dell'economia di mercato, ma lo fa anche con indignazione. Perché una comunità politica planetaria che non è stata in grado di reperire 30 miliardi di dollari all'anno per abbattere il numero dei malnutriti, in quindici giorni ha trovato 2.000 miliardi per difendere le banche complici della finanza canaglia.
La strada è ancora lunga ma non c'è dubbio che in questa sconfitta storica noi intravediamo la certezza e la necessità che verrà data maggiore attenzione all'agricoltura, ai saperi manuali, alle nuove tecnologie sostenibili e alla ricerca di energia pulita e rinnovabile.
Siamo tornati di colpo agli aiuti pubblici. Per banche e industria, sull'agricoltura c'è però silenzio.In questo settore ci sono stati aiuti pubblici detti sussidi soprattutto ai grandi proprietari e non ai piccoli, che nel nord del mondo sono serviti per pagare le grande produzioni per fare poi dumping in Africa e nei paesi poveri. Ora bisogna puntare a quella piccola agricoltura che difende il paesaggio e che è pronta a impegnarsi nelle nuove tecnologie, un tema purtroppo non ancora al centro dell'attenzione. Penso che i contadini siano uno dei soggetti principali per l'avanzamento della terza rivoluzione industriale. La prima è stata quella della macchina a vapore, la seconda quella dell'energia elettrica, entrambe sostenute dal combustibile fossile. Questa terza sarà quella che farà lievitare la produzione di energia rinnovabile. Le piccole aziende possono realizzare microimprese di produzione autonoma di energia. Ecco perché sono contro il nucleare ma anche contro le grandi concentrazioni di energia solare. Tante piccole entità sono la risposta! Alla base della sostenibilità, ci sono il rifiuto dello spreco, il riuso e il riciclaggio, già nelle pratiche dei contadini. C'è la possibilità di un'alleanza virtuosa tra i nuovi manager dell'energia che vedono il business e l'agricoltura. Vadano dai contadini, e li ascoltino.
Cibo e futuro sono una questione culturale, dunque. Ma siamo anche in un paese che sta tagliando fondi per i saperi, scuola, università, ricerca, editoria. Che fare?È un momento complicato. Andrebbe risolto a monte il discorso del cibo come uno degli elementi virtuosi di vere relazioni vitali. Cibo, agricoltura, ambiente, sostenibilità, lotta contro il cambiamento climatico, salute, educazione, convivialità. Se noi ridiamo al cibo questo valore, la musica cambia. Ma da questo punto di vista il lavoro culturale è ancora immenso, perché non è patrimonio né della destra né della sinistra. Sì, anche la nostra amata sinistra non ha intercettato questo cambiamento, questa nuova politica. Voi de il manifesto siete l'eccezione che conferma la regola. Da sempre avete avuto attenzione a queste tematiche e per esempio la vostra rubrica Terra Terra messa a pagina 2 del giornale è un segno molto forte.
Vi chiudono? Vedo in questo paese un rigurgito di ostentato pragmatismo, di governo dei bilanci della fabbrica Italia, come se bisognasse mettere in riga tutte quelle economie poco virtuose perché non rendono o costano troppo, relegando la cultura e la conoscenza in un ambito non produttivo. Va da sé che se ragiono così penso che tutto sia uno spreco. Ma non è così. Da che mondo e mondo, la cultura, l'informazione libera e la formazione degli individui sono un bene preziosissimo per l'economia. Se passa questo meccanismo, è come un effetto valanga, dove il padrone del vapore decide quello che va e quello che non va e taglia. Salvo poi chiedere a tutti magari di tornare a essere consumatori.

mercoledì 22 ottobre 2008

PESSIMA IDEA DI MARKETING LA RIFORMA GELMINI



di Marco Ferri da Megachip

Se fosse stata in vigore la legge 133, quella con cui si tagliano circa 8 miliardi di euro alla scuola italiana, facendo finta di riformarla, quanto sto per raccontare non sarebbe potuto succedere. Né sarebbe stato possibile raccontarla se all'epoca dei fatti fosse stata avanzata la sciagurata idea di separare in classi differenziate i bambini figli di genitori migranti in Italia.


Conservo ancora una copia de “Le braci” di Sàndor Màrai, che reca una dedica che ancora oggi mi provoca un certa emozione: “Un grande saluto e ringraziamento per averci fatto fare un salto nella creatività dei grandi. Le bambine e i bambini della 5° A. Roma, 17 Giugno 1999.”

I fatti andorono così. Proposi alle maestre della classe che frequentava mia figlia Elettra di far partecipare gli alunni a “Comunicare Roma”, un premio istituito dall'Unione Industriali per favorire la comunicazione a favore della Capitale.

Il tema di quell'anno era l'accoglienza, per via che si avvicinava il Giubileo del 2000: la città si preparava all'avvenimento con grandi lavori di rifacimento e ristrutturazione urbana.

La prima riunione con i bambini e le maestre avvenne un pomeriggio nella loro classe, al secondo piano della Scuola Elementare Emanuele Gianturco. Non era la prima volta che frequentavo la scuola durante l'orario delle lezioni: quei bambini facevano esercitazioni per la creazioni di un ipertesto su “La gabbianella e il gatto” di Sepùlveda, libro che avevo regalato un giorno a mia figlia davanti alla scuola e che le maestre adottarono come sussidio didattico. Un'altra volta avevo letto in classe alcuni piccoli racconti di uno scrittore marocchino, racconti sui bambini di Marrakesh, che avevo ricevuto tradotti in italiano via fax da un'amica, Wilma Labate che meditava di farne un film.

Raccontai ai bambini cosa bisognava fare per partecipare al concorso “Comunicare Roma” e soprattutto come bisognava farlo. L'ostacolo relativo ai requisiti del possesso della cittadinanza italiana e della maggiore età fu superato dalla decisione che avremmo iscritto i lavori a nome della maestra Italia.

Poi diedi il “brief”, come chiamiamo noi pubblicitari il racconto del problema, l'individuazione dell'oggetto della campagna e i mezzi da usare.

Chiesi ai bambini della 5°A: “ Quanti di voi sono nati in questa città?”. Si alzarono venticinque manine. Chiesi ancora: “Quanto di voi hanno i papà e le mamme che sono nati a Roma?”. Questa volta le manine alzate furono poco meno della metà dei presenti. Infine, chiesi: ”Chi di voi ha i nonni che sono nati a Roma?” Non si alzarono più di due o tre manine. Sorrisi, mentre la maestra Italia mi guardava un poco perplessa. Allora cercai di spiegarmi meglio. E dissi loro che era evidente, nella loro esperienza, che i loro nonni prima e alcuni dei loro genitori poi erano venuti a stabilirsi a Roma, per i più disparati motivi. Ma ciò che sembrava essere importante che in questa città si erano fermati, avevano messo su famiglia, avevano messo al mondo bambini, che oggi vivono e vanno a scuola a Roma. In definitiva, se per i bambini di quella classe Roma era la loro città natale, per alcuni dei loro parenti Roma era stata la città adottiva.

“Allora, che ne dite, bambini se il nostro slogan fosse, appunto, Roma città adottiva?”

Dopo una qualche esitazione, venticinque testoline fecero sì, mente la maestra scrisse “Roma città adottiva” sulla lavagna. La riunione di brief era finita, ci saremmo rivisti dopo qualche giorno per decidere quali idee realizzare.

Mi presentai con tre film presi a noleggio, proponendo l'utilizzo di uno spezzone di trenta secondi, tratto da “La marcia su Roma” di Dino Risi: Gasmann e Tognazzi, nei panni di due fascisti, cercano di convincere un militare a dar loro un poco del suo rancio. Quello non ci pensa nemmeno. Allora Gasmann, gli dice: “ ‘a milità, semo tutti de Roma.” E Tognazzi, tradendo le sue origini padane, rincara: “E sì, siamo tutti romani, mannaggia a li mortecci.”

Si decise di proseguire con la lavorazione di questo spezzone, al quale sarebbe stato montato in coda un cartello finale, che raffigurava la lupa che allatta i gemelli,simbolo della Capitale, uno dei quali sarebbe stato bianco, l'altro nero, recante la scritta “Roma città adottiva”. Infine decidemmo che avremmo potuto iscrivere al premio sia lo spot che il manifesto con la lupa e i gemelli, uno bianco e l'altro nero.

Nei giorni successivi, una bambina della classe registrò la frase finale presso la Cat Sound di Franco Agostini, che si prestò gratuitamente a incidere e fare i materiali utili al montaggio. Poi, grazie alle conoscenze della mamma di uno dei bambini, accompagnammo un gruppo di loro al montaggio in Avid, presso una casa di produzione cinematografica di Roma. Infine, con l'aiuto volontario di Andrea Bayer, art director, facemmo il fotomontaggio della lupa coi gemelli di colori diversi e presentammo alla 5° A il layout del manifesto.

Passarono alcune settimane e un giorno la giuria di “Comunicare Roma” comunicò alla maestra Italia che il lavoro era stato selezionato e la invitava a partecipare alla cerimonia di premiazione, che si sarebbe tenuta al Teatro dell'Opera di Roma.

La sera della premiazione il Teatro dell'Opera di Roma era gremito di pubblico e di autorità, mentre i tecnici della Rai manovravano le telecamere per la ripresa televisiva dell'evento. In una fila di poltroncine rosse, in fondo alla platea, venticinque bambini fremevano per conoscere l'esito della premiazione.

Fu proclamato il secondo premio della categoria spot e chiamata sul palco la maestra Italia. La quale ringraziò e disse che il merito era degli alunni della sua classe, che invitò a salire sul palcoscenico. I venticinque bambini, in fila indiana come topini, sgambettarono tra mille sguardi sorpresi verso il palcoscenico. Ci fu un poco di agitazione, poi esplose un fragoroso applauso. La conduttrice televisiva avvicinò il microfono a una bambina della classe, che disse, candidamente: “Io sono nata a Roma, mio padre e mia madre vengono dallo Sri Lanka. Questa è la città adottiva dei miei genitori e io sono stata accolta bene dai miei amici di scuola.” Venne giù il teatro. Alla fine la 5°A della Scuola elementare Emanuele Gianturco risultò vincitrice anche del secondo premio per il miglior manifesto.

Questa storia ha un epilogo che val la pena ricordare brevemente. Oltre che di attestati di benemerenza, i due secondi premi consistevano anche in due viaggi omaggio alle Maldive, messi a disposizione da uno degli sponsor della serata. I voucer furono ceduti a titolo gratuito dalla maestra a due coppie di genitori i quali fecero una donazione alla scuola, che fu utile a integrare il contributo scolastico per la gita di fine anno della 5°A, alla quale non tutti avrebbero potuto partecipare per via della quota di partecipazione. Poiché in questo modo le quote individuali si abbassarono notevolmente, tutti gli alunni della 5°A andarono in gita tre giorni in una località marina della costa laziale.

Oggi mia figlia Elettra ha vent'anni, della sua compagnetta di scuola i cui genitori migrarono dallo Sri Lanka non so nulla. Incontro invece il suo papà, che lavora in un famoso bar di piazza del Pantheon, a Roma. Ogni tanto mi capita di entrare e bere un caffè e quell'uomo ricambia il mio saluto con un lieve sorriso, come di una lunga e antica intesa.

Recentemente, il ministro dell'Istruzione ha dichiarato di non capire il motivo della protesta che in queste settimane scuote il mondo della scuola pubblica, dalle elementari alle università contro la sua legge di riforma. Non sono sicuro dica il vero. Sa che le dico, cara signora ministro: quando un prodotto non funziona, non c'è marketing che tenga.

sabato 18 ottobre 2008

PIERO CALAMANDREI_A.D. 1950



Piero Calamandrei pronuncia il seguente discorso l'11 febbraio 1950 a Roma al III Congresso dell'Associazione a difesa della Scuola Nazionale.

“Facciamo l’ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuole fare la marcia su Roma e trasformare l’aula in un alloggiamento per manipoli; ma vuole istituire, senza parere, una larvata dittatura.

Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di stato hanno il difetto di essere imparziali. C’è una certa resistenza; in quelle scuole c’è sempre, perfino sotto il fascismo c’è stata. Allora, il partito dominante segue un’altra strada (è tutta un’ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche,a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia perfino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di stato. E magari si danno dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece cha alle scuole pubbliche alle scuole private. A “quelle” scuole private. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo apertamente trasformare le scuole di stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di stato per dare la prevalenza alle sue scuole private. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tenere d’occhio i cuochi di questa bassa cucina. L’operazione si fa in tre modi, ve l’ho già detto: rovinare le scuole di stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. Dare alle scuole private denaro pubblico.

Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico".

(Pubblicato nella rivista Scuola Democratica, 20 marzo 1950).