lunedì 8 dicembre 2008

Per tutti quelli che si stanno chiedendo come mai l'imposta comunale...



Per tutti coloro che si stanno chiedendo come mai l’imposta comunale sull’immondizia sia aumentata notevolmente, eccovi delle semplici e pratiche risposte.

Per anni ci siamo accontentati di decorazioni natalizie semplici, banali e fuori luogo. Faccio un esempio: ma cosa diavolo erano quelle illuminazioni sparse qua e là per via Roma? E vogliamo parlare di quell’abete gigante che negli ultimi anni ha calato la sua austera ombra su tutta la piazza? Le passate amministrazioni credevano davvero che bastassero solo queste due semplici sciocchezze per portare nel nostro paese l’atmosfera del Natale? I cittadini erano stanchi. Depressi. Consumati dall’idea del classico e del monotono. Avevano bisogno di qualcosa di nuovo, moderno, più incline ai tempi che stiamo vivendo. Avevano bisogno di cambiamento. Così nel palazzo comunale, un uomo con il suo maglioncino rosa salmone, sfregandosi le mani, si interrogava su giganteschi quesiti esistenziali, sul come riportare nel cuore dei gioiesi lo spirito del Natale. Non riusciva a venirne a capo. Così alzò la cornetta e chiamò il caro vecchio Babbo Natale. L’uomo era disperato. “Babbo- gli chiese- ma com’è che i miei cittadini non sentono più la magia del Natale?”
“Hai provato a chiedere a loro?”
“Certo- rispose l’uomo del cambiamento- io non prendo mica decisioni senza interpellare i miei cittadini!”
“E loro, cosa ti hanno risposto?”
“Che forse è perché si è persa la vera essenza del Natale, cioè la generosità, l’altruismo, la fratellanza, il donare agli altri!”
“E quindi?” chiese il caro Vecchietto, sperando che Mr Cambiamento arrivasse da solo alle sue risposte.
“E quindi abbiamo praticamente regalato alla Lum, una povera, bisognosa, università PRIVATA, uno stabile comunale di recente ristrutturazione!”
Babbo Natale rimase un po’ perplesso, l’uomo non riusciva proprio a giungere da solo alle sue risposte.
“Forse hanno bisogno di un salto nel passato, prova a riportarli all’atmosfera di quando erano Bambini!”
L’uomo si fermò a riflettere un po’ e poi ebbe un’illuminazione. Certo! Perché non ci aveva pensato prima! Riportare i cittadini ai tempi della loro infanzia, quando il Natale era vero, sentito con il cuore. Così chiuse la chiamata, senza neanche ringraziare Babbo Natale (ma cosa volete, che venga ringraziato un uomo vestito di rosso con la barba incolta??? Ma siete matti????), chiamò immediatamente i suoi collaboratori e disse loro: “Presto!!! Riempite Via Roma di Ridenti (vi consiglio di andare a verificare con i vostri occhi quanto siano davvero ridenti!) Palme! Che si stenda un tappeto rosso come accade ad Hollywood! Che per ogni strada si diffondano canti di Gioioso Natale! Che si stampino Manifesti con il countdown verso il 25 dicembre, un po’ come quelli che abbiamo fatto, sempre con i soldi dei contribuenti, per ripristinare il doppio senso in via Giuseppe di Vittorio!”
“Ma Sindaco, non ci sono i soldi!!!!”
“Aumentiamo un’imposta qua, un’imposta là…bacchetta magica: Ed il gioco è fatto!!!”
“Ma i cittadini saranno d’accordo???”
“Certo- rispose l’uomo del cambiamento- io non prendo mica decisioni senza interpellare i miei cittadini!”; poi un altro lampo di genio. Gli risuonarono in mente le parole di Babbo il rosso. Un salto nel passato…quando erano bambini…Ma perché non ci aveva pensato prima???
Quando erano bambini c’era anche IL MERCATO COPERTO IN PIAZZA. Così ordinò: “Presto, vendete il vecchio mercato coperto, che se ne costruisca uno nuovo, cioè vecchio, cioè… avete capito…però in piazza!”
“Ma sindaco, i cittadini penseranno che questa sia una magagna sulla speculazione edilizia! Non saranno d’accordo!”
““Certo che saranno d’accordo - affermò orgoglioso l’uomo dal maglioncino color rosa salmone - io non prendo mica decisioni senza interpellare i miei cittadini!”
“Ma lei non li ha mica interpellati!”
“Certo che li ho interpellati: Mi hanno votato!!!”
E fu così che, con qualche aumento sull’imposta comunale sui rifiuti che i cittadini furono ben contenti di pagare, Gioia del colle ebbe di nuovo un fantastico e sereno Natale.

sabato 15 novembre 2008

CHE FURBETTO QUEL BRUNETTA

di Emiliano Fittipaldi e Marco Lillo (da L'Espresso)

La trasferta a Teramo per diventare professore. La casa con sconto dall'ente. Il rudere che si muta in villa. Le assenze in Europa e al Comune. Ecco la vera storia del ministro anti-fannulloni



La prima immagine di Renato Brunetta impressa nella memoria di un suo collega è quella di un giovane docente inginocchiato tra i cespugli del giardino dell'università a fare razzia di lumache. Lì per lì i professori non ci fecero caso, ma quella sera, invitati a cena a casa sua, quando Brunetta servì la zuppa, saltarono sulla sedia riconoscendo i molluschi a bagnomaria. Che serata. La vera sorpresa doveva ancora arrivare. Sul più bello lo chef si alzò in piedi e, senza un minimo di ironia, annunciò solennemente: "Entro dieci anni vinco il Nobel. Male che vada, sarò ministro". Eravamo a metà dei ruggenti anni '80, Brunetta era solo un professore associato e un consulente del ministro Gianni De Michelis.

Ci ha messo 13 anni in più, ma alla fine l'ex venditore ambulante di gondolette di plastica è stato di parola. In soli sette mesi di governo è diventato la star più splendente dell'esecutivo Berlusconi. La guerra ai fannulloni conquista da mesi i titoli dei telegiornali. I sondaggi lo incoronano - parole sue - 'Lorella Cuccarini' del governo, il più amato dagli italiani. Brunetta nella caccia alle streghe contro i dipendenti pubblici non conosce pietà. Ha ristretto il regime dei permessi per i parenti dei disabili, sogna i tornelli per controllare i magistrati nullafacenti e ha falciato i contratti a termine. Dagli altri pretende rigore, meritocrazia e stakanovismo, odia i furbi e gli sprechi di denaro pubblico, ma il suo curriculum non sempre brilla per coerenza. A 'L'espresso' risulta che i dati sulle presenze e le sue attività al Parlamento europeo non ne fanno un deputato modello. Anche la carriera accademica non è certo all'altezza di un Nobel. Ma c'è un settore nel quale l'ex consigliere di Bettino Craxi e Giuliano Amato ha dimostrato di essere davvero un guru dell'economia: la ricerca di immobili a basso costo, dove ha messo a segno affari impossibili per i comuni mortali.


Chi l'ha visto Appena venticinquenne, Brunetta entra nel dorato mondo dei consulenti (di cui oggi critica l'abuso). Viene nominato dall'allora ministro Gianni De Michelis coordinatore della commissione sul lavoro e stende un piano di riforma basato sulla flessibilità che gli costa l'odio delle Brigate rosse e lo costringe a una vita sotto scorta. Poi diventa consigliere del Cnel, in area socialista. Nel 1993, durante Mani Pulite firma la proposta di rinnovamento del Psi di Gino Giugni. Nel 1995 entra nella squadra che scrive il programma di Forza Italia e nel 1999 entra nel Parlamento europeo.

Proprio a Strasburgo, se avessero applicato la 'legge dei tornelli' invocata dal ministro, il professore non avrebbe fatto certo una bella figura. Secondo i calcoli fatti da 'L'espresso', in dieci anni è andato in seduta plenaria poco più di una volta su due. Per la precisione la frequenza tocca il 57,9 per cento. Con questi standard un impiegato (che non guadagna 12 mila euro al mese) potrebbe restare a casa 150 giorni l'anno. Ferie escluse. Lo stesso ministro ha ammesso in due lettere le sue performance: nella legislatura 1999-2004 ha varcato i cancelli solo 166 volte, pari al 53,7 per cento delle sedute totali. "Quasi nessun parlamentare va sotto il 50, perché in tal caso l'indennità per le spese generali viene dimezzata", spiegano i funzionari di Strasburgo. Nello stesso periodo il collega Giacomo Santini, Pdl, sfiorava il 98 per cento delle presenze, il leghista Mario Borghezio viaggiava sopra l'80 per cento. Il trend di Brunetta migliora nella seconda legislatura, quando prima di lasciare l'incarico per fare il ministro firma l'elenco (parole sue) 148 volte su 221. Molto meno comunque di altri colleghi di Forza Italia: nello stesso periodo Gabriele Albertini è presente 171 volte, Alfredo Antoniozzi e Francesco Musotto 164, Tajani, in veste di capogruppo, 203.

La produttività degli europarlamentari si misura dalle attività. In aula e in commissione. Anche in questo caso Brunetta non sembra primeggiare: in dieci anni ha compilato solo due relazioni, i cosiddetti rapporti di indirizzo, uno dei termometri principali per valutare l'efficienza degli eletti a Strasburgo. L'ultima è del 2000: nei successivi otto anni il carnet del ministro è desolatamente vuoto, fatta eccezione per le interrogazioni scritte, che sono - a detta di tutti - prassi assai poco impegnativa. Lui ne ha fatte 78. Un confronto? Il deputato Gianni Pittella, Pd, ne ha presentate 126. Non solo. Su 530 sedute totali, Brunetta si è alzato dalla sedia per illustrare interrogazioni orali solo 12 volte, mentre gli interventi in plenaria (dal 2004 al 2008) si contano su due mani. L'ultimo è del dicembre 2006, in cui prende la parola per "denunciare l'atteggiamento scortese e francamente anche violento" degli agenti di sicurezza: pare non lo volessero far entrare. Persino gli odiati politici comunisti, che secondo Brunetta "non hanno mai lavorato in vita loro", a Bruxelles faticano molto più di lui: nell'ultima legislatura il no global Vittorio Agnoletto e il rifondarolo Francesco Musacchio hanno percentuali di presenza record, tra il 90 e il 100 per cento.

Se la partecipazione ai lavori d'aula non è da seguace di Stakanov, neanche in commissione Brunetta appare troppo indaffarato. L'economista sul suo sito personale ci fa sapere che, da vicepresidente della commissione Industria, tra il 1999 e il 2001 ha partecipato alle riunioni solo la metà delle volte, mentre nel biennio 2002-2003, da membro titolare della delicata commissione per i Problemi economici e monetari, si è fatto vedere una volta su tre. Strasburgo è lontana dall'amata Venezia, ma non si tratta di un problema di distanza. A Ca' Loredan, nel municipio dove è stato consigliere comunale e capo dell'opposizione dal 2000 al 2005, il nemico dei fannulloni detiene il record. Su 208 sedute si è fatto vedere solo in 87 occasioni: quattro presenze su dieci, il peggiore fra tutti i 47 consiglieri veneziani.

Il bello del mattone
LA MAPPA DELLE PROPRIETA' DI BRUNETTA
Brunetta spendeva invece molto tempo libero per mettere a segno gli affari immobiliari della sua vita. Oggi il ministro possiede un patrimonio composto da sei immobili (due ereditati a metà con il fratello) sparsi tra Venezia, Roma, Ravello e l'Umbria, per un valore di svariati milioni di euro. "Mi piacciono le case e le ho pagate con i mutui", ha sempre detto. Effettivamente per comprare e ristrutturare la magione di 420 metri quadrati con terreno e piscina in Umbria, a Monte Castello di Vibio, vicino a Todi, Brunetta ha contratto un mutuo di 600 milioni di vecchie lire del 1993. Ma per acquistare la casa di Roma e quella di Ravello, visti i prezzi ribassati, non ne ha avuto bisogno. Cominciamo da quella di Roma. Alla fine degli anni Ottanta il rampante professore aveva bisogno di un alloggio nella capitale, dove soggiornava sempre più spesso per la sua attività politica. Un comune mortale sarebbe stato costretto a rivolgersi a un'agenzia immobiliare pagando le stratosferiche pigioni di mercato. Brunetta no.
Come tanti privilegiati, riesce a ottenere un appartamento dall'Inpdai, l'ente pubblico che dovrebbe sfruttare al meglio il suo patrimonio immobiliare per garantire le pensioni ai dirigenti delle aziende. Invece, in quel tempo, come 'L'espresso' ha raccontato nell'inchiesta 'Casa nostra' del 2007, gli appartamenti più belli finivano ai soliti noti. Brunetta incluso. Un affitto che in quegli anni era un sogno per tutti i romani, persino per i dirigenti iscritti all'Inpdai ai quali sarebbe spettato. Lo racconta Tommaso Pomponi, un ex dirigente della Rai ora in pensione, che ha presentato domanda alla fine degli anni Ottanta: "Nonostante fossi stato sfrattato, non ottenni nessuna risposta. Contattai presidente e direttore generale, scrissi lettere di protesta, inutilmente". Pomponi ha pagato per anni due milioni di lire di affitto e poi ha comprato a prezzi di mercato, come tutti. Il ministro, invece, dopo essere stato inquilino per più di 15 anni con canone che non ha mai superato i 350 euro al mese, ha consolidato il suo privilegio rendendolo perpetuo: nel novembre 2005 il patrimonio degli enti infatti è stato ceduto. Brunetta compra insieme agli altri inquilini ottenendo uno sconto superiore al 40 per cento sul valore di stima. Alla fine il prezzo spuntato dal grande moralizzatore del pubblico impiego è di 113 mila euro, per una casa di 4 vani catastali, situata in uno dei punti più belli di Roma. Si tratta di un quarto piano con due graziosi balconcini e una veranda in legno. Brunetta vede le rovine di Roma e il parco dell'Appia antica. Un appartamento simile a quello del ministro vale circa mezzo milione di euro: con i suoi 113 mila euro l'economista avrebbe potuto acquistare un box.

Un tuffo in Costiera Anche il buen retiro di Ravello è stato un affare immobiliare da Guinness. Brunetta, che si autodefinisce "un genio", diventa improvvisamente modesto quando passa in rassegna i suoi possedimenti campani. "Una proprietà scoscesa", ha definito questa splendida villa di 210 metri quadrati catastali immersa in 600 metri di giardino e frutteto. Seduto nel suo patio il ministro abbraccia con lo sguardo il blu e il verde, Ravello e Minori.

Per comprare i ruderi che ha poi ristrutturato ha speso 65 mila euro tra il 2003 e il 2005. "Quanto?", dice incredula Erminia Sammarco, titolare dell'agenzia immobiliare Tecnocasa di Amalfi: "Mi sembra impossibile: a quel prezzo un mio cliente ha venduto una stalla con un porcile". Oggi un rudere di 50 metri quadri costa circa 350 mila euro, e una villa simile a quella dell'economista supera di gran lunga il milione di euro. Il ministro ha certamente speso molto per la pregevole ristrutturazione, tanto che ha preso un mutuo da 300 mila euro poco dopo l'acquisto del 2003 che finirà di pagare nel 2018, ma ha indubbiamente moltiplicato l'investimento iniziale.

Ma come si fa a trasformare una catapecchia senza valore in una villa di pregio? 'L'espresso' ha consultato il catasto e gli atti pubblici scoprendo così che Brunetta ha comprato due proprietà distinte per complessivi sette vani catastali, affidando i lavori di restauro alla migliore ditta del luogo. Dopo la cura Brunetta, al posto dei ruderi si materializza una villetta su tre livelli su 172 metri quadrati più dépendance, rifiniture in pietra e sauna in costruzione. Per il catasto, invece, l'alloggio passa da civile a popolare. In compenso, i sette vani sono diventati 12 e mezzo. Come è stata possibile questa lievitazione? "Diversa distribuzione degli spazi interni", dicono le carte. La signora Lidia Carotenuto, che fino al 2002 era proprietaria del piano inferiore, ricorda con un po' di malinconia: "La mia casa era composta di due stanzette, al massimo saranno stati 40 metri quadrati e sopra c'era un altro appartamento (che misurava 80 metri catastali, ndr) in rovina. So che ora il Comune di Ravello sta costruendo una strada che passerà vicino all'abitazione del ministro. Io non avrei venduto nulla se l'avessero fatta prima...". A rappresentare Brunetta nell'atto di acquisto della dépendance nel 2005 è stato il geometra Nicola Fiore, che aveva seguito in precedenza anche le pratiche urbanistiche. Fiore era all'epoca assessore al Bilancio del comune, guidato dal sindaco Secondo Amalfitano, del Partito democratico. I rapporti con il primo cittadino è ottimo: Brunetta entra nella Fondazione Ravello. E quest'anno, dopo le elezioni, Amalfitano fa il salto della barricata, entra nel Pdl e lascia la Costiera per Roma dove viene nominato suo consigliere ministeriale.

Il Nobel mancato "Io sono un professore di economia del lavoro, l'ho guadagnato con le unghie e con i denti. Sono uno dei più bravi d'Italia, forse d'Europa", ha spiegato Brunetta ad Alain Elkann, che di rimbalzo lo ha definito "un maestro della pasta e fagioli" prima di chiedergli la ricetta del piatto. L'economista Ada Becchi Collidà, che ha lavorato nello stesso dipartimento per otto anni, dice senza giri di parole che "Renato non è uno studioso. È prevalentemente un organizzatore, che sa dare il meglio di sé quando deve mettere insieme risorse". Alla facoltà di Architettura di Venezia entra nel 1982, dopo aver guadagnato l'idoneità a professore associato in economia l'anno precedente. Come ha ricordato in Parlamento il deputato democratico Giovanni Bachelet, Brunetta non diventa professore con un vero concorso, ma approfitta di una "grande sanatoria" per i precari che gravitavano nell'università. Una definizione contestata dal ministro, che replica: avevo già tutti i titoli.

In cattedra Secondo il curriculum pubblicato sul sito dell'ateneo di Tor Vergata (dove insegna dal 1991), al tempo il giovane Brunetta poteva vantare poche pubblicazioni: una monografia di 500 pagine e due saggi. Il primo era composto di dieci pagine ed era scritto a sei mani, il secondo era un pezzo sulla riduzione dell'orario edito da 'Economia&Lavoro', la rivista della Fondazione Brodolini, di area socialista, che Brunetta stesso andrà a dirigere nel 1980. Tutto qui? Nel mondo della ricerca esistono diverse banche dati per valutare il lavoro di uno studioso. Oggi Brunetta si trova in buona posizione su quella Econlit, che misura il numero delle pubblicazioni rilevanti: 30, più della media dei suoi colleghi. La musica cambia se si guarda l'indice Isi-Thompson, quello che calcola le citazioni che un autore ha ottenuto in lavori successivi: una misura indiretta e certo non infallibile della qualità di una pubblicazione, ma che permette di farsi un'idea sull'importanza di un docente. L'indice di citazioni di Brunetta è fermo sullo zero.

Le valutazioni degli indicatori sono discutibili, ma di sicuro il mondo accademico non lo ha mai amato: "L'università ha sempre visto in lui il politico, non lo scienziato", ricorda l'ex rettore dello Iuav di Venezia, Marino Folin. Nel 1991, da professore associato, riesce a trasferirsi all'Università di Tor Vergata. In attesa del Nobel, tenta almeno di diventare professore ordinario partecipando al concorso nazionale del 1992. In un primo momento viene inserito tra i 17 vincitori. Ma un commissario, Bruno Sitzia, rimette tutto in discussione. Scrive una lettera e, senza riferirsi a Brunetta, denuncia la lottizzazione e la poca trasparenza dei criteri di selezione. "Si discusse anche di Brunetta, e ci furono delle obiezioni", ricorda un commissario che chiede l'anonimato: "La situazione era curiosa: la maggioranza del collegio era favorevole a includere l'attuale ministro, ma non per i suoi meriti, bensì perché era stato trovato l'accordo che faceva contenti tutti. Comunque c'erano candidati peggiori di lui". Il braccio di ferro durò mesi, poi il presidente si dimise. E la nuova commissione escluse Brunetta. Il professore 'migliore d'Europa' viene bocciato. Un'umiliazione insopportabile. Così fa ricorso al Tar, che gli dà torto. Poi si appella al Consiglio di Stato, ma poco prima della decisione si ritira in buon ordine. Nel 1999 era riuscito infatti a trovare una strada per salire sulla cattedra. Un lungo giro che valica l'Appennino e si arrampica alle pendici del Gran Sasso, ma che si rivela proficuo. È a Teramo che ottiene infine il riconoscimento: l'alfiere della meritocrazia, bocciato al concorso nazionale, riesce a conquistare il titolo di ordinario grazie all'introduzione dei più facili concorsi locali. Nel 1999 partecipa al bando di Teramo, la terza università d'Abruzzo. Il posto è uno solo ma vengono designati tre vincitori. La cattedra va al candidato del luogo ma anche gli altri due ottengono 'l'idoneità'. Brunetta è uno dei due e torna a Tor Vergata con la promozione. Un'ultima nota. A leggere le carte del concorso, fino al 2000 Brunetta "è professore associato a Tor Vergata". La stranezza è che il curriculum ufficiale - pubblicato sul sito della facoltà del ministro - lo definisce "professore ordinario dal 1996". Quattro anni prima: errore materiale o un nuovo eccesso di ego del Nobel mancato?

Hanno collaborato Michele Cinque e Alberto Vitucci

(13 novembre 2008)

Segnalato da Gino Paccione

lunedì 10 novembre 2008

LA SINISTRA



Le ragazze e i ragazzi che in questi giorni portano la loro protesta in tutte le piazze del paese per una scuola che li aiuti a crearsi un futuro ci dicono che la speranza di un’altra Italia è possibile. Che è possibile reagire alla destra che toglie diritti e aumenta privilegi. Che è possibile rispondere all’insulto criminale che insanguina il Mezzogiorno e vuole ridurre al silenzio le coscienze più libere. Che è possibile dare dignità al lavoro, spezzando la logica dominante che oggi lo relega sempre più a profitto e mercificazione. Che è possibile affermare la libertà delle donne e vivere in un paese ove la laicità sia un principio inviolabile. Che è possibile lavorare per un mondo di pace. Che è possibile, di fronte all’offensiva razzista nei confronti dei migranti, rispondere - come fece Einstein - che l’unica razza che conosciamo è quella umana. Che è possibile attraverso una riconversione ecologica dell’economia contrastare i cambiamenti climatici, riducendone gli effetti ambientali e sociali. Che è possibile, dunque, reagire ad una politica miserabile la quale, di fronte alla drammatica questione del surriscaldamento del pianeta, cerca di bloccare le scelte dell’Europa in nome di una cieca salvaguardia di ristretti interessi.
Cambiare questo paese è possibile. A patto di praticare questa speranza che oggi cresce d’intensità, di farla incontrare con una politica che sappia anche cambiare se stessa per tradurre la speranza di oggi in realtà. E’ questo il compito primario di ciò che chiamiamo sinistra.
Viviamo in un paese e in un tempo che hanno bisogno di un ritrovato impegno e di una nuova sinistra, ecologista, solidale e pacifista. La cronaca quotidiana dei fatti è ormai una narrazione impietosa dell’Italia e della crisi delle politiche neoliberiste su scala mondiale. Quando la condizione sociale e materiale di tanta parte della popolazione precipita verso il rischio di togliere ogni significato alla parola futuro; quando cittadinanza, convivenza, riconoscimento dell’altro diventano valori sempre più marginali; quando le donne e gli uomini di questo paese vedono crescere la propria solitudine di fronte alle istituzioni, nei luoghi di lavoro – spesso precario, talvolta assente – come in quelli del sapere; quando tutto questo accade nessuna coscienza civile può star ferma ad aspettare. Siamo di fronte ad una crisi che segna un vero spartiacque. Crollano i dogmi del pensiero unico che hanno alimentato le forme del capitalismo di questi ultimi 20 anni. Questa crisi rende più che mai attuale il bisogno di sinistra, se essa sarà in grado di farsi portatrice di una vera alternativa di società a livello globale.
E’ alla politica che tocca il compito, qui ed ora, di produrre un’idea, un progetto di società, un nuovo senso da attribuire alle nostre parole. Ed è la politica che ha il compito di dire che un’alternativa allo stato presente delle cose è necessaria ed è possibile. La destra orienta la sua pesante azione di governo – tutto è già ben chiaro in soli pochi mesi – sulla base di un’agenda che ha nell’esaltazione persino esasperata del mercato e nello smantellamento della nostra Costituzione repubblicana i capisaldi che la ispirano. Cosa saranno scuola e formazione, ambiente, sanità e welfare, livelli di reddito e qualità del lavoro, diritti di cittadinanza e autodeterminazione di donne e uomini nell’Italia di domani, quel domani che è già dietro l’angolo, quando gli effetti di questa destra ora al governo risulteranno dirompenti e colpiranno dritto al cuore le condizioni di vita, già ora così difficili, di tante donne e uomini?
E’ da qui che nasce l’urgenza e lo spazio – vero, reale, possibile, crescente – di una nuova sinistra che susciti speranza e chiami all’impegno politico, che lavori ad un progetto per il paese e sappia mobilitare anche chi è deluso, distratto, distante. Una sinistra che rifiuti il rifugio identitario fine a sé stesso, la fuga dalla politica, l’affannosa ricerca dei segni del passato come nuovi feticci da agitare verso il presente. Una sinistra che assuma la sconfitta di aprile come un momento di verità, non solo di debolezza. E che dalle ragioni profonde di quella sconfitta vuole ripartire, senza ripercorrerne gli errori, le presunzioni, i limiti. Una sinistra che guardi all’Europa come luogo fondamentale del proprio agire e di costruzione di un’alternativa a questa globalizzazione. Una sinistra del lavoro capace di mostrare come la sua sistematica svalorizzazione sia parte decisiva della crisi economica e sociale che viviamo.
Per far ciò pensiamo a una sinistra che riesca finalmente a mescolare i segni e i semi di più culture politiche per farne un linguaggio diverso, un diverso sguardo sulle cose di questo tempo e di questo mondo. Una politica della pace, non solo come ripudio della guerra, anche come quotidiana costruzione della cultura della non violenza e della cooperazione come alternativa alla competizione. Una sinistra dei diritti civili, delle libertà, dell’uguaglianza e delle differenze. Una sinistra che non sia più ceto politico ma luogo di partecipazione, di ricerca, di responsabilità condivise. Che sappia raccogliere la militanza civile, intellettuale e politica superando i naturali recinti dei soggetti politici tradizionali. E che si faccia carico di un’opposizione rigorosa , con l’impegno di costruire un nuovo, positivo campo di forze e di idee per il paese. La difesa del contratto nazionale di lavoro, che imprese e governo vogliono abolire per rendere più diseguali e soli i lavoratori e le lavoratrici è per noi l’immediata priorità, insieme all’affermazione del valore pubblico e universale della scuola e dell’università e alla difesa del clima che richiede una vera e propria rivoluzione ecologica nel modo di produrre e consumare.
Lavorare da subito ad una fase costituente della sinistra italiana significa anche spezzare una condizione di marginalità – politica e persino democratica – e scongiurare la deriva bipartitista , avviando una riforma delle pratiche politiche novecentesche.
L’obiettivo è quello di lavorare a un nuovo soggetto politico della sinistra italiana attraverso un processo che deve avere concreti elementi di novità: non la sommatoria di ceti politici ma un percorso democratico, partecipativo, inclusivo. Per operare da subito promuoviamo l’associazione politica “Per la Sinistra”, uno strumento leggero per tutti coloro che sono interessati a ridare voce, ruolo e progetto alla sinistra italiana, avviando adesioni larghe e plurali.
Fin da ora si formino nei territori comitati promotori provvisori, aperti a tutti coloro che sono interessati al processo costituente , con il compito di partecipare alla realizzazione, sabato 13 dicembre, di una assemblea nazionale. Punto di partenza di un processo da sottoporre a gennaio a una consultazione di massa attorno a una carta d’intenti, un nome, un simbolo, regole condivise. Proponiamo di arrivare all’assemblea del 13 dicembre attraverso un calendario di iniziative che ci veda impegnati, già da novembre, a costruire un appuntamento nazionale sulla scuola e campagne sui temi del lavoro e dei diritti negati, dell’ambiente e contro il nucleare civile e militare e per lo sviluppo delle energie rinnovabili.
Sappiamo bene che non sarà un percorso semplice né breve, che richiederà tempo, quel tempo che è il luogo vero dove si sviluppa la ricerca di altri linguaggi, la produzione di nuova cultura politica, la formazione di nuove classi dirigenti. Una sinistra che sia forza autonoma – sul piano culturale, politico, organizzativo – non può prescindere da ciò. Ma il tempo di domani è già qui ed è oggi che dobbiamo cominciare a misurarlo. Ecco perché diciamo che questo nostro incontro segna, per noi che vi abbiamo preso parte, la comune volontà di un’assunzione individuale e collettiva di responsabilità. La responsabilità di partecipare a un percorso che finalmente prende avvio e di voler contribuire ad estenderlo nelle diverse realtà del territorio, di sottoporlo ad una verifica larga, di svilupparlo lavorando sui temi più sensibili che riguardano tanta parte della popolazione e ai quali legare un progetto politico della sinistra italiana, a cominciare dalla pace, dall’equità sociale e dal lavoro, dai diritti e dall’ambiente alla laicità.
Noi ci impegniamo oggi in questo cammino. A costruirlo nel tempo che sarà richiesto. A cominciare ora.

Roma, 7 novembre 2008


Primi firmatari:
Mario Agostinelli, Vincenzo Aita, Ritanna Armeni, Alberto Asor Rosa, Angela Azzaro, Fulvia Bandoli, Katia Belillo, Giovanni Berlinguer, Piero Bevilacqua, Jean Bilongo, Maria Luisa Boccia, Luca Bonaccorsi, Sergio Brenna, Luisa Calimani, Antonio Cantaro, Luciana Castellina, Giusto Catania, Paolo Cento, Giuseppe Chiarante, Raffaella Chiodo, Marcello Cini, Lisa Clark, Maria Rosa Cutrufelli, Pippo Delbono, Vezio De Lucia, Paolo De Nardis, Loredana De Petris, Elettra Deiana, Carlo De Sanctis, Arturo Di Corinto, Titti Di Salvo, Daniele Farina, Claudio Fava, Carlo Flamigni, Pietro Folena, Enrico Fontana, Marco Fumagalli, Luciano Gallino, Franco Giordano, Giuliano Giuliani, Umberto Guidoni, Leo Gullotta, Margherita Hack, Paolo Hutter, Francesco Indovina, Rosa Jijon, Francesca Koch, Wilma Labate, Simonetta Lombardo, Francesco Martone, Graziella Mascia, Gianni Mattioli, Danielle Mazzonis, Gennaro Migliore, Adalberto Minucci, Filippo Miraglia, Marco Montemagni, Serafino Murri, Roberto Musacchio, Pasqualina Napoletano, Paolo Naso, Diego Novelli, Alberto Olivetti, Moni Ovadia, Italo Palumbo, Giorgio Parisi, Luca Pettini, Elisabetta Piccolotti, Paolo Pietrangeli, Fernando Pignataro, Bianca Pomeranzi, Alessandro Portelli, Alì Rashid, Luca Robotti, Massimo Roccella, Stefano Ruffo, Mario Sai, Simonetta Salacone, Massimo L. Salvadori, Edoardo Salzano, Bia Sarasini, Scipione Semeraro, Patrizia Sentinelli, Massimo Serafini, Tore Serra, Giuliana Sgrena, Aldo Tortorella, Gabriele Trama, Mario Tronti, Nichi Vendola

venerdì 31 ottobre 2008

NON HAI UN SOLO NOME...



di Nichi Vendola, dal suo blog.

Non hai un solo nome, sei un soggetto plurimo, sei una moltitudine, sei maschile e femminile. Eppure voglio
scriverti pensandoti come un singolo, anzi come una singola. Si, come una studentessa: e non certo per pelosa galanteria, ma perché la “cosa” che incarni è così poco militarizzata e gerarchizzata che mi offre una declinazione al “femminile” dei pensieri che mi ispiri. E dunque, cara studentessa anti-Gelmini: ti spio, ti annuso, provo a decifrare il tuo lessico, cerco di indovinare i tuoi gusti e le tue passioni. Hai la faccia anche della mia piccola Ida, che è andata al suo battesimo con la piazza con la serietà con cui ci si presenta ad un esame scolastico. Il suo primo corteo. Mi sono imposto, per una questione di igiene politica, di non fare paragoni (il 68, il 77, l’85, la pantera): quei paragoni che dicono molto della nostra vecchiezza e poco della giovinezza di chi compone le forme nuove della ribellione al potere. Ho cercato di non sovrapporre la mia epopea, la mia biografia, la mia ideologia, al corpo sociale che tu rappresenti, al processo culturale che tu costruisci, alla radicale contraddizione che tu fai esplodere con la fantasia e il sarcasmo dei tuoi codici comunicativi e della tua contro-informazione. Tu sei, seppure ancora appesa a più fili di adolescenza, una domanda matura e irriducibile di democrazia: e hai capito che per non essere ridotta alla volgarità del tele-voto e della pubblicità, la democrazia non può che vivere e rigenerarsi nel rapporto con le culture, nella socializzazione dei saperi critici, nella ri-tessitura quotidiana delle reti di incivilimento e dei nodi di convivialità. La scuola è il fondamento di ogni democrazia. Lo è quando insegna ai bimbi delle elementari l’elementare rispetto per ogni essere umano: precetto che forse evaporerebbe in qualche istituto scolastico di rito padano. Lo è quando riannoda i fazzoletti della memoria storica e tramanda narrazioni, saperi e valori. Lo è anche quando la scuola fuoriesce da sé, straripa nel conflitto politico-sociale, invade la piazza,
trasferisce la cattedra sul marciapiede, proietta le proprie attitudini pedagogiche sui territori, rompe la separatezza dei suoi microcosmi e investe con domande di senso l’intera società. Dimmi che scuola hai e ti dirò che società sei. C’è chi immagina, anzi c’è chi vuole apparati della formazione che preparino alla precarietà esistenziale e produttiva: e dunque servono scuole e università dequalificate. Le classi dirigenti (forse è più appropriato dire “classi dominanti”) si riproducono invece per partenogenesi, ben protette in quei laboratori della clonazione sociale che sono scuole e università private. Cara studentessa, queste cose tu le hai scoperte con semplicità, le hai spiegate alla tua famiglia, le hai narrate con compostezza nelle assemblee, hai rivendicato la tua centralità (la centralità della pubblica istruzione) contro chi “cogliendo l’attimo” dell’egemonia berlusconiana voleva e vuole di colpo annullare un secolo di battaglia delle idee, di esperienze gigantesche di riorganizzazione sociale e scolastica: hai ben compreso che la Gelmini non è folclore, ma è il punto più insidioso dell’offensiva della destra, è una sorta di don Lorenzo Milani rovesciato, è l’apologia di un “piccolo mondo antico” abitato da voti in condotta e grembiulini monocromatici dietro la cui scenografia ottocentesca si muove la modernità barbarica del mercato: che non ha bisogna di individui colti, e liberi perché padroni delle conoscenze, ma ha bisogno di piccole libertà in forma di merce per individui ammaestrati alla competizione e diseducati alla cooperazione.
Carissima studentessa, la lezione più importante che ho appreso studiando le vicende del secolo in cui sono nato è che l’obbedienza non è una virtù assoluta. Se è ossequio ad un potere cieco, ad un codice violento, ad un paradigma di morte, allora bisogna ribellarsi, allora bisogna scegliere le virtù civiche della disobbedienza. Non si può obbedire alla politica del cinismo affaristico e classista. Al contrario, dobbiamo cercare la politica che ci aiuta ad essere la forza ostetrica che fa nascere il futuro. Volevo ringraziarti perché, spiandoti e annusandoti, non ho pensato: questa qui è dalla mia parte. Ho pensato che la mia parte (stavo per dire il mio partito) è nello spazio riempito dai tuoi gesti, dalle tue parole, dalla forza inaudita di tutte le tue libertà.

domenica 26 ottobre 2008

TERRA MADRE LA RIVINCITA



«Il liberismo è riuscito a speculare anche sul cibo»
Incontro con Carlo Petrini, presidente di Slow Food

Francesco Paternò da il Manifesto

È diventato una specie di papa Carlo Petrini, detto Carlin, presidente di Slow Food International, fondatore e molto altro ancora. Riceve per cinque giorni politici e contadini, cuochi e giornalisti da tutto il mondo e per tutti ha un verbo, una storia, un aneddoto. All'ambasciatrice australiana presso il Quirinale che s'infila nella nostra stanza per un saluto, Carlin racconta di quell'allevatore di mucche che ad Adelaide lo invita a visitare la sua tenuta. E lo fa accomodare su un aereo. Il Salone del Gusto e Terra Madre sono il suo regno, sospeso tra cielo e terra a spiegarci perché l'agricoltura e i suoi prodotti devono tornare al centro della produzione e della cultura.
Parliamo di economia reale, quella che Slow Food sta portando a Torino in questi giorni?
Questa è in effetti l'economia reale del cibo, che negli ultimi 50 anni ha perso valore al punto che è diventato quasi un'appendice ludica e parlare di gastronomia rischia di sconfinare nell'immaginario collettivo in un divertissment elitario. Invece la storia ci ricorda quanto l'umanità ha lavorato, ha sofferto e fatto delle guerre per garantire la nutrizione e quanto ancora siamo dentro questo contesto. Riconciliare la gastronomia vera con l'importanza del cibo, dell'agricoltura e dei saperi tradizionali, questo stiamo facendo. Tanto più che oggi una moltitudine di persone si trova in una fase storica particolare gravissima, determinata da uno sconquasso di natura finanziaria. Il liberismo, dopo aver speculato sulle abitazioni della gente, dell'energia e del petrolio, come colpo di coda prima che la bolla scoppiasse, è riuscito a speculare ancora sul cibo. Determinando gli aumenti di derrate alimentari fondamentali per milioni di persone. E colpendo la popolazione malnutrita, quasi un sesto dei viventi, aumentata per queste speculazioni.
Ora la bolla è scoppiata e noi la viviamo con duplice sentimento. Da un lato con preoccupazione per un futuro di crisi e di difficoltà soprattutto per i meno abbienti, ma dall'altro anche con un senso di liberazione. Per la fine di questa logica, diventata quasi un pensiero unico, mentre l'economia di sussistenza veniva considerata marginale.
Mica vorrai dire che è la rivincita di Terra Madre?
Terra Madre in qualche modo assapora questa sconfitta storica dell'economia di mercato, ma lo fa anche con indignazione. Perché una comunità politica planetaria che non è stata in grado di reperire 30 miliardi di dollari all'anno per abbattere il numero dei malnutriti, in quindici giorni ha trovato 2.000 miliardi per difendere le banche complici della finanza canaglia.
La strada è ancora lunga ma non c'è dubbio che in questa sconfitta storica noi intravediamo la certezza e la necessità che verrà data maggiore attenzione all'agricoltura, ai saperi manuali, alle nuove tecnologie sostenibili e alla ricerca di energia pulita e rinnovabile.
Siamo tornati di colpo agli aiuti pubblici. Per banche e industria, sull'agricoltura c'è però silenzio.In questo settore ci sono stati aiuti pubblici detti sussidi soprattutto ai grandi proprietari e non ai piccoli, che nel nord del mondo sono serviti per pagare le grande produzioni per fare poi dumping in Africa e nei paesi poveri. Ora bisogna puntare a quella piccola agricoltura che difende il paesaggio e che è pronta a impegnarsi nelle nuove tecnologie, un tema purtroppo non ancora al centro dell'attenzione. Penso che i contadini siano uno dei soggetti principali per l'avanzamento della terza rivoluzione industriale. La prima è stata quella della macchina a vapore, la seconda quella dell'energia elettrica, entrambe sostenute dal combustibile fossile. Questa terza sarà quella che farà lievitare la produzione di energia rinnovabile. Le piccole aziende possono realizzare microimprese di produzione autonoma di energia. Ecco perché sono contro il nucleare ma anche contro le grandi concentrazioni di energia solare. Tante piccole entità sono la risposta! Alla base della sostenibilità, ci sono il rifiuto dello spreco, il riuso e il riciclaggio, già nelle pratiche dei contadini. C'è la possibilità di un'alleanza virtuosa tra i nuovi manager dell'energia che vedono il business e l'agricoltura. Vadano dai contadini, e li ascoltino.
Cibo e futuro sono una questione culturale, dunque. Ma siamo anche in un paese che sta tagliando fondi per i saperi, scuola, università, ricerca, editoria. Che fare?È un momento complicato. Andrebbe risolto a monte il discorso del cibo come uno degli elementi virtuosi di vere relazioni vitali. Cibo, agricoltura, ambiente, sostenibilità, lotta contro il cambiamento climatico, salute, educazione, convivialità. Se noi ridiamo al cibo questo valore, la musica cambia. Ma da questo punto di vista il lavoro culturale è ancora immenso, perché non è patrimonio né della destra né della sinistra. Sì, anche la nostra amata sinistra non ha intercettato questo cambiamento, questa nuova politica. Voi de il manifesto siete l'eccezione che conferma la regola. Da sempre avete avuto attenzione a queste tematiche e per esempio la vostra rubrica Terra Terra messa a pagina 2 del giornale è un segno molto forte.
Vi chiudono? Vedo in questo paese un rigurgito di ostentato pragmatismo, di governo dei bilanci della fabbrica Italia, come se bisognasse mettere in riga tutte quelle economie poco virtuose perché non rendono o costano troppo, relegando la cultura e la conoscenza in un ambito non produttivo. Va da sé che se ragiono così penso che tutto sia uno spreco. Ma non è così. Da che mondo e mondo, la cultura, l'informazione libera e la formazione degli individui sono un bene preziosissimo per l'economia. Se passa questo meccanismo, è come un effetto valanga, dove il padrone del vapore decide quello che va e quello che non va e taglia. Salvo poi chiedere a tutti magari di tornare a essere consumatori.

mercoledì 22 ottobre 2008

PESSIMA IDEA DI MARKETING LA RIFORMA GELMINI



di Marco Ferri da Megachip

Se fosse stata in vigore la legge 133, quella con cui si tagliano circa 8 miliardi di euro alla scuola italiana, facendo finta di riformarla, quanto sto per raccontare non sarebbe potuto succedere. Né sarebbe stato possibile raccontarla se all'epoca dei fatti fosse stata avanzata la sciagurata idea di separare in classi differenziate i bambini figli di genitori migranti in Italia.


Conservo ancora una copia de “Le braci” di Sàndor Màrai, che reca una dedica che ancora oggi mi provoca un certa emozione: “Un grande saluto e ringraziamento per averci fatto fare un salto nella creatività dei grandi. Le bambine e i bambini della 5° A. Roma, 17 Giugno 1999.”

I fatti andorono così. Proposi alle maestre della classe che frequentava mia figlia Elettra di far partecipare gli alunni a “Comunicare Roma”, un premio istituito dall'Unione Industriali per favorire la comunicazione a favore della Capitale.

Il tema di quell'anno era l'accoglienza, per via che si avvicinava il Giubileo del 2000: la città si preparava all'avvenimento con grandi lavori di rifacimento e ristrutturazione urbana.

La prima riunione con i bambini e le maestre avvenne un pomeriggio nella loro classe, al secondo piano della Scuola Elementare Emanuele Gianturco. Non era la prima volta che frequentavo la scuola durante l'orario delle lezioni: quei bambini facevano esercitazioni per la creazioni di un ipertesto su “La gabbianella e il gatto” di Sepùlveda, libro che avevo regalato un giorno a mia figlia davanti alla scuola e che le maestre adottarono come sussidio didattico. Un'altra volta avevo letto in classe alcuni piccoli racconti di uno scrittore marocchino, racconti sui bambini di Marrakesh, che avevo ricevuto tradotti in italiano via fax da un'amica, Wilma Labate che meditava di farne un film.

Raccontai ai bambini cosa bisognava fare per partecipare al concorso “Comunicare Roma” e soprattutto come bisognava farlo. L'ostacolo relativo ai requisiti del possesso della cittadinanza italiana e della maggiore età fu superato dalla decisione che avremmo iscritto i lavori a nome della maestra Italia.

Poi diedi il “brief”, come chiamiamo noi pubblicitari il racconto del problema, l'individuazione dell'oggetto della campagna e i mezzi da usare.

Chiesi ai bambini della 5°A: “ Quanti di voi sono nati in questa città?”. Si alzarono venticinque manine. Chiesi ancora: “Quanto di voi hanno i papà e le mamme che sono nati a Roma?”. Questa volta le manine alzate furono poco meno della metà dei presenti. Infine, chiesi: ”Chi di voi ha i nonni che sono nati a Roma?” Non si alzarono più di due o tre manine. Sorrisi, mentre la maestra Italia mi guardava un poco perplessa. Allora cercai di spiegarmi meglio. E dissi loro che era evidente, nella loro esperienza, che i loro nonni prima e alcuni dei loro genitori poi erano venuti a stabilirsi a Roma, per i più disparati motivi. Ma ciò che sembrava essere importante che in questa città si erano fermati, avevano messo su famiglia, avevano messo al mondo bambini, che oggi vivono e vanno a scuola a Roma. In definitiva, se per i bambini di quella classe Roma era la loro città natale, per alcuni dei loro parenti Roma era stata la città adottiva.

“Allora, che ne dite, bambini se il nostro slogan fosse, appunto, Roma città adottiva?”

Dopo una qualche esitazione, venticinque testoline fecero sì, mente la maestra scrisse “Roma città adottiva” sulla lavagna. La riunione di brief era finita, ci saremmo rivisti dopo qualche giorno per decidere quali idee realizzare.

Mi presentai con tre film presi a noleggio, proponendo l'utilizzo di uno spezzone di trenta secondi, tratto da “La marcia su Roma” di Dino Risi: Gasmann e Tognazzi, nei panni di due fascisti, cercano di convincere un militare a dar loro un poco del suo rancio. Quello non ci pensa nemmeno. Allora Gasmann, gli dice: “ ‘a milità, semo tutti de Roma.” E Tognazzi, tradendo le sue origini padane, rincara: “E sì, siamo tutti romani, mannaggia a li mortecci.”

Si decise di proseguire con la lavorazione di questo spezzone, al quale sarebbe stato montato in coda un cartello finale, che raffigurava la lupa che allatta i gemelli,simbolo della Capitale, uno dei quali sarebbe stato bianco, l'altro nero, recante la scritta “Roma città adottiva”. Infine decidemmo che avremmo potuto iscrivere al premio sia lo spot che il manifesto con la lupa e i gemelli, uno bianco e l'altro nero.

Nei giorni successivi, una bambina della classe registrò la frase finale presso la Cat Sound di Franco Agostini, che si prestò gratuitamente a incidere e fare i materiali utili al montaggio. Poi, grazie alle conoscenze della mamma di uno dei bambini, accompagnammo un gruppo di loro al montaggio in Avid, presso una casa di produzione cinematografica di Roma. Infine, con l'aiuto volontario di Andrea Bayer, art director, facemmo il fotomontaggio della lupa coi gemelli di colori diversi e presentammo alla 5° A il layout del manifesto.

Passarono alcune settimane e un giorno la giuria di “Comunicare Roma” comunicò alla maestra Italia che il lavoro era stato selezionato e la invitava a partecipare alla cerimonia di premiazione, che si sarebbe tenuta al Teatro dell'Opera di Roma.

La sera della premiazione il Teatro dell'Opera di Roma era gremito di pubblico e di autorità, mentre i tecnici della Rai manovravano le telecamere per la ripresa televisiva dell'evento. In una fila di poltroncine rosse, in fondo alla platea, venticinque bambini fremevano per conoscere l'esito della premiazione.

Fu proclamato il secondo premio della categoria spot e chiamata sul palco la maestra Italia. La quale ringraziò e disse che il merito era degli alunni della sua classe, che invitò a salire sul palcoscenico. I venticinque bambini, in fila indiana come topini, sgambettarono tra mille sguardi sorpresi verso il palcoscenico. Ci fu un poco di agitazione, poi esplose un fragoroso applauso. La conduttrice televisiva avvicinò il microfono a una bambina della classe, che disse, candidamente: “Io sono nata a Roma, mio padre e mia madre vengono dallo Sri Lanka. Questa è la città adottiva dei miei genitori e io sono stata accolta bene dai miei amici di scuola.” Venne giù il teatro. Alla fine la 5°A della Scuola elementare Emanuele Gianturco risultò vincitrice anche del secondo premio per il miglior manifesto.

Questa storia ha un epilogo che val la pena ricordare brevemente. Oltre che di attestati di benemerenza, i due secondi premi consistevano anche in due viaggi omaggio alle Maldive, messi a disposizione da uno degli sponsor della serata. I voucer furono ceduti a titolo gratuito dalla maestra a due coppie di genitori i quali fecero una donazione alla scuola, che fu utile a integrare il contributo scolastico per la gita di fine anno della 5°A, alla quale non tutti avrebbero potuto partecipare per via della quota di partecipazione. Poiché in questo modo le quote individuali si abbassarono notevolmente, tutti gli alunni della 5°A andarono in gita tre giorni in una località marina della costa laziale.

Oggi mia figlia Elettra ha vent'anni, della sua compagnetta di scuola i cui genitori migrarono dallo Sri Lanka non so nulla. Incontro invece il suo papà, che lavora in un famoso bar di piazza del Pantheon, a Roma. Ogni tanto mi capita di entrare e bere un caffè e quell'uomo ricambia il mio saluto con un lieve sorriso, come di una lunga e antica intesa.

Recentemente, il ministro dell'Istruzione ha dichiarato di non capire il motivo della protesta che in queste settimane scuote il mondo della scuola pubblica, dalle elementari alle università contro la sua legge di riforma. Non sono sicuro dica il vero. Sa che le dico, cara signora ministro: quando un prodotto non funziona, non c'è marketing che tenga.

sabato 18 ottobre 2008

PIERO CALAMANDREI_A.D. 1950



Piero Calamandrei pronuncia il seguente discorso l'11 febbraio 1950 a Roma al III Congresso dell'Associazione a difesa della Scuola Nazionale.

“Facciamo l’ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuole fare la marcia su Roma e trasformare l’aula in un alloggiamento per manipoli; ma vuole istituire, senza parere, una larvata dittatura.

Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di stato hanno il difetto di essere imparziali. C’è una certa resistenza; in quelle scuole c’è sempre, perfino sotto il fascismo c’è stata. Allora, il partito dominante segue un’altra strada (è tutta un’ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche,a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia perfino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di stato. E magari si danno dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece cha alle scuole pubbliche alle scuole private. A “quelle” scuole private. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo apertamente trasformare le scuole di stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di stato per dare la prevalenza alle sue scuole private. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tenere d’occhio i cuochi di questa bassa cucina. L’operazione si fa in tre modi, ve l’ho già detto: rovinare le scuole di stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. Dare alle scuole private denaro pubblico.

Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico".

(Pubblicato nella rivista Scuola Democratica, 20 marzo 1950).

mercoledì 15 ottobre 2008

TEATRO ROSSINI: UN TRISTE FUTURO



L’Amministrazione Comunale di centro-destra ha dato corso in questi giorni al nuovo piano programmatico e organizzativo per la stagione 2008/09 del Teatro Comunale Rossini.

IL PARTITO DELLA RIFONDAZIONE COMUNISTA INTENDE DENUNCIARE L’ARRETRAMENTO CULTURALE E LAVORATIVO CHE DERIVERÀ DALL’ATTUAZIONE DELLA NUOVA GESTIONE

Nello specifico è previsto:

- Un cartellone che dà ampio spazio a spettacoli comici di derivazione televisiva che farà del Teatro Rossini un avamposto della tv commerciale, con la pretesa di avvicinare in questo modo i giovani al teatro, attraverso un percorso educativo, culturale e morale affidato alla televisione (!!!)

- Contestualmente, l’eliminazione totale degli spettacoli mattutini per le scuole di ogni ordine e grado, attività che ha reso in questi anni il Teatro Rossini un punto di riferimento culturale per tutta la Provincia

- La riduzione quasi totale del finanziamento per il Maggio all’infanzia (evento culturale di risonanza nazionale, amato da tutta Gioia del Colle), che, nei fatti, costringerà gli organizzatori a trasferire il festival in uno dei tanti Comuni della Provincia ben disposto a non lasciarsi sfuggire una manifestazione così importante

- L’eliminazione delle produzioni e dei laboratori che tanto hanno dato alla nostra città in termini di marketing, di crescita culturale, di socialità (basti pensare allo spettacolo Bella e bestia che ha portato il marchio del Teatro Rossini in tutto il mondo o alla bellissima esperienza dell’incontro tra teatro ed handicap)

- L’eliminazione dal cartellone del Teatro Rossini delle associazioni locali che erano riuscite negli ultimi due anni a guadagnarsi con merito un ruolo di primo piano nella programmazione generale

- La riduzione dei costi del 30% (ma i conti li faremo a consuntivo!), a fronte di tagli al personale e di una riduzione consistente della programmazione

- Il taglio di 3 posti di lavoro full-time retribuiti negli scorsi anni dalla Coop. Kismet nella misura prevista dal Contratto Nazionale dei Lavoratori dello Spettacolo, che verranno sostituiti con 4 assunzioni part-time che non garantiscono stabilità lavorativa, stipendi dignitosi, oneri previdenziali e il rispetto delle professionalità maturate negli anni

A ciò si aggiunga l’operazione di demolizione attuata dall’attuale Amministrazione di quanto si è fatto nell’ultimo decennio al Rossini. In delibera si afferma che “sporadici sono stati i nomi di attori di fama”: risparmiamo al Sindaco, alla Giunta e ai consiglieri di maggioranza e “opposizione” che hanno votato a favore del nuovo corso, un elenco lunghissimo di nomi di attori, registi, compagnie e musicisti che a loro certamente non direbbe nulla (d’altronde come potrebbe, visto che MAI hanno oltrepassato in questi anni le porte del teatro!), ma che rimane nella memoria e nei cuori dei tanti gioiesi e non, che hanno vissuto l’avventura del Rossini.

È legittimo che una nuova Amministrazione decida di intraprendere strade diverse, per quanto a nostro avviso dannose e retrive, ma non permettiamo che si getti fango e si tenti di distruggere un’esperienza culturale esaltante, costruita con il lavoro e la passione di tantissima gente (citiamo uno per tutti, l’assessore Pino Dentico), esperienza che, alla luce di quanto è nelle intenzioni della nuova Amministrazione, resterà certamente insuperata.

lunedì 13 ottobre 2008

E SE IL VOSTRO COMUNE SI DOTASSE DI UN PIANO REGOLATORE A CRESCITA ZERO?



di Alessandro Mortarino - da Megachip

C'è un esempio molto interessante in Italia su cui sarebbe utile che ogni cittadino sensibile al futuro del proprio territorio e del pianeta intero ponesse attenzione. Protagonista è un piccolo Comune dell'hinterland milanese (poco meno di 1.700 abitanti): Cassinetta di Lugagnano. Che negli ultimi anni ha scelto di risparmiare il proprio suolo da nuove ondate cementificatrici e percorrere la strada della “crescita zero”, cioè della piena sostenibilità.


E dato che in queste settimane un gruppo di “coraggiosi” cittadini (residenti in quella sorta di “macroregione” che è la zona Roero-Langhe-Monferrato, territorio che si è recentemente candidato al riconoscimento Unesco quale “patrimonio dell'umanità”) ha iniziato ad elaborare un progetto ispirato proprio alla “crescita zero”, ci piace raccontare ai nostri lettori l'esperienza di Cassinetta di Lugagnano, attraverso le parole del suo Sindaco, Domenico Finiguerra. In attesa che i fermenti vivi che usciranno dal gruppo dei “coraggiosi” delle nostre colline, non si materializzino in un programma ispiratorio anche per amministratori pubblici, società civile intera, costruttori di un nuovo modello di comunità felice...

Il gruppo di “pionieri” sta elaborando il manifesto di un comitato che si intitolerà “Stop al consumo di territorio - Movimento per la difesa del diritto al territorio non cementificato”. I cui capisaldi saranno la presa di coscienza della conclusione di un periodo storico che riponeva una parte consistente dello sviluppo dell'intera zona nel consumo di nuovi terreni vergini e agricoli ed il superamento dell'equazione “maggior consumo di territorio = maggior sviluppo”, affermando l'alternativa, ovvero che: l'attuale patrimonio edilizio esistente (se adeguatamente gestito ...) può soddisfare ampiamente le esigenze abitative e produttive dell'intera area e contribuire così alla maturazione di una coscienza dei limiti fisici del territorio...

Per offrire un semplice dato su cui iniziare a riflettere, ricordiamo - a puro titolo di esempio – che, secondo i dati dell'assessore regionale Sergio Conti, nella sola provincia di Cuneo circa il 40% dei capannoni edificati risultano vuoti o inutilizzati: sono stati, cioè, costruiti ma apparentemente non per essere utilizzati ... Sì, stiamo proprio parlando di quei tristi, enormi capannoni industrial-artigianali che punteggiano le nostre pianure (ma, purtroppo, spesso anche le cime delle ricche colline) come perenne memoria della apparente rinuncia umana alla natura ed al senso della bellezza. Un dato scandaloso, se consideriamo che coprire terreni fertili di materiali inerti concorre a riscaldare il pianeta e che proprio i terreni liberi da cemento saranno le vere fabbriche del futuro...

per saperne di più clicca qui

domenica 12 ottobre 2008

NOI SIAMO QUI



di Piero Sansonetti - da Liberazione

Un bel sospiro di sollievo. E' stata una manifestazione grandissima. Molto più grande di quanto ci aspettavamo. Diciamo trecentomila persone, almeno due ore di corteo. Dopo la giornata di venerdì, con altrettanti studenti in piazza in decine di città italiane, ora abbiamo la certezza che l'opposizione non è morta, la protesta non è morta, la sinistra esiste ancora. Paolo Ferrero nei giorni scorsi ha adoperato questa espressione: «E' finita la ritirata». Vuol dire che si ricomincia, si torna all'attacco, si torna a far politica.
Qual è l'urgenza, qual è l'obiettivo? Quello di ricominciare a svolgere un ruolo di trasformazione, quello di impedire che il dilagare del berlusconismo porti alla fine del pensiero politico, alla fine del pluralismo, al dominio incontrastato di una classe dirigente che la destra è riuscita a ristrutturare e a ricompattare. E' una battaglia dura, complicata. Si tratta di rispondere a molte domande. Alcune delle quali venivano poste proprio ieri da Rossana Rossanda nell'editoriale de il Manifesto, e fondamentalmente sono riducibili a una sola: riuscirà la sinistra a non restare muta - o tutt'al più sorridente, ma priva di iniziativa - di fronte alla più formidabile crisi economico-politica e di sistema che il capitalismo abbia mai incontrato dal 1929 ad oggi?
Non si può naturalmente chiedere a un corteo, o a una manifestazione di piazza, di elaborare una nuova politica. Però nessuna politica è possibile se non si tiene su delle gambe «di popolo», su una spinta di massa. Questa spinta ieri c'era. C'era in un corteo che in alcune fasi sembrava persino un po' imbarazzato, un po' incerto su se stesso. Stupito di essere così grande dopo mesi di sconfitte terrificanti, a partire dalla frana elettorale, e stupito persino di essere unito, compatto, dopo un lungo periodo di lotte interne e lacerazioni.
Ma davvero il corteo era unito? Naturalmente aveva molte anime al suo interno. La più forte, la più visibile, era l'anima che chiede una identità sicura alla sinistra, l'anima fortemente «comunista». Però c'erano anche gli altri, molti altri, che invece credono che non si deve partire dalla propria identità, dal proprio passato, ma da una idea di futuro da mettere insieme e mettere a frutto. L'impressione ieri è stata che queste due anime ancora si scrutano con diffidenza, ma cominciano a pensare di poter lavorare insieme.

venerdì 10 ottobre 2008

SENZA LA SCUOLA PUBBLICA NON SAREI UNA SCRITTRICE



di Valeria Parrella - da Liberazione

Ho fatto una scuola pubblica e le sono grata. Ho avuto insegnanti decenti e insegnanti indecenti, poi ho avuto insegnanti straordinari. Quelli sono stati il punto di riferimento da cui è partita l'analisi del mondo, da cui è partito tutto. All'università i libri guidano, le bibliografie sono il sentiero lungo cui scorrere. Alle elementari, alle medie, al liceo i libri non dicono nulla da soli: hanno bisogno del cantore, dell'esegeta, di quello che ti incoraggia ad aprirli. Questo sono gli insegnanti.
Io sono una mancata insegnante. Sono laureata in lettere classiche ma ci ho messo tanto tempo a laurearmi che ho perso l'ultimo concorso. La maggior parte delle mie amiche ha fatto quel concorso, qualcuna ci ha aggiunto la famigerata Sis, molte sono emigrate. Il Piemonte, la Lombardia, il Veneto, dove le graduatorie potevano accoglierle. Io ho vicariato questo impegno mancato della mia vita con i racconti, poi con il romanzo: ovunque mi sono immaginata insegnante, ovunque ho attinto dai racconti che mi sono cari più di tutti: quelli che vengono dalle aule, quelli che fanno presagire dei destini, delle vite, dei cittadini nuovi. Mio padre è un'insegnante e non riesce ad andare in pensione. Studia tutti i giorni, il suo lavoro non finisce mai: è la sua esistenza, l'impegno soggettivo della mattina, il riscontro dei ragazzi tutta la sua vita. Certe cose si ereditano. La gioia, la passione della scuola pubblica, gratuita, laica - e nei migliori casi laicista -, la "livella" di Totò, quelle medie in cui ti trovi ad avere a che fare con tutti i tipi di società, senza poterti rifugiare nel tuo, e quindi potendo imparare da ognuno, dovendoti confrontare con ognuno.
Io devo tutto allo studio: senza quello che ho studiato non sarei nulla. Il contatto con i compagni mi ha sempre commossa, ha scardinato il mondo chiuso nel quale mi intristivo già da piccola. Le mie attuali amiche - ho trentacinque anni - quelle di cui mi fido e su cui conto e per le quali tremo come per me stessa, sono le mie compagne di liceo. Le mie prime sfide sono state contro i professori che non ritenevo degni, i miei primi applausi li cercavo in quelli di essi che stimavo. Alle medie avevo un'insegnante di italiano illuminata, e una di storia e geografia retrò: con la prima tenevamo il grembiule sotto il banco e con la seconda lo indossavamo: la mia prima gestione del potere l'ho imparata così. Per anni per me la scuola è stata "Lo Stato", l'appartenenza, il dovere, quello felice perché giusto. Senza la scuola pubblica italiana non sarei nulla, non sarei una scrittrice, non starei scrivendo ora in nome di Tommaso, professore di storia e filosofia che corre in questi giorni da un istituto all'altro per "colmare" le ore. In nome di Paola professoressa di lettere che si sveglia alle sei e parte con il bimbo di un anno dalla periferia di Napoli, raggiunge il centro, poi lascia il bambino alla materna, poi corre in classe a lavorare sul sostegno.
Senza la scuola che ho fatto, che mi ha fatto, non potrei dire ora in maniera sincera e profonda, come lo sento, che disprezzo e deploro il comportamento del ministro dell'Istruzione, che indico nel disfacimento della scuola pubblica, nella considerazione bassa che si ha degli insegnanti, la morte della nostra società. Qualunque ministro si erga al di sopra della Scuola Italiana compie un crimine contro lo Stato, contro me stessa, contro mio figlio e si destituisce immediatamente di qualunque ragion d'essere.

giovedì 9 ottobre 2008

A SCUOLA COL NEMICO



di Alba Sasso - da il Manifesto

Un gesto di scaltrezza politica quello di chiedere la fiducia sul decreto Gelmini sulla scuola. Dove l'urgenza rivendicata dalla ministra, ancora ieri su tutti i giornali, visto che il decreto scade il 31 ottobre e che ci sarebbe tutto il tempo per una discussione delle camere? In primo luogo il governo ha paura della sua stessa maggioranza. A cominciare dai mal di pancia della Lega sia sul maestro unico sia sulla chiusura delle piccole scuole. In secondo luogo si esercita, nonostante le resistenze di Fini, in prove muscolari. Gesti di sfida alla democrazia parlamentare. Ma c'è di più. Da dove provengono, in questi mesi, le più forti voci di dissenso, di contestazione, di una volontà sempre più chiara di infrangere la marea restauratrice che ormai sommerge il paese? Forse proprio dalla scuola. È da lì che viene un movimento sempre più deciso, forte e consapevole. Tagli al massacro, una politica miope e retriva, il ritorno a una scuoletta degna di un paese in cui ancora re e preti la facevano da padroni. La scuola gelminiana è ben di più, e ben peggio, di quella della santa effigiata nei cortei, o dell'avvocatessa anti meridionale, che viene al sud a prendere l'abilitazione. L'urgenza di far cassa costruisce una filosofia e una pedagogia. La rabbia di tanti genitori e maestri, lunedì al presidio davanti Montecitorio all'annuncio del voto di fiducia, è di chi vede distruggere un modello di scuola costruito nel tempo, in un reciproco scambio di saperi, di relazioni, in una crescita comune. In una scuola che sempre più deve fare i conti con la pluralità delle storie e delle culture, con le diversità, col disagio e con l'eccellenza. E perciò deve individuare gli strumenti per migliorare, per andare avanti. E invece si torna al passato per decreto. Senza ascolto e senza coinvolgimento dei soggetti interessati. Disegnando il profilo di una scuola del pensiero unico. Autoritarismo da un lato, attacco culturale senza precedenti dall'altro.Un governo che compra lavagne luminose e riduce drasticamente il numero degli insegnanti, le ore di lezione. È il profilo di una scuola dei clienti e dei consumatori: l'ombra dell'homo berlusconiano a sua volta realizzato dai programmatori dei palinsesti televisivi. Quanto abbiamo sottovalutato la potenza devastante di questo strumento, e quanto poco abbiamo fatto per attrezzarci ad una sfida che non si poteva, non si doveva evitare. Piano, sono andati definendosi i contorni del buon italiano, che riduttivamente definiamo con gli archetipi del calciatore e della velina. Si tratta di modelli culturali di grande presa perché di forte attrazione. Ma qualcuno deve aver capito che è nelle scuole, che si annida il nemico. Come le comunità di Fahrenheit 451, che custodivano la memoria dei libri, li mandavano a memoria, trasmettevano il sapere e la critica, l'analisi e il sogno, la conoscenza come dubbio e curiosità. È questa la scuola che ha continuato a sfornare nei decenni, cittadini, e non sudditi.

mercoledì 8 ottobre 2008

GIULIANO BRUNO: LA SECESSIONE DA UN'EPOCA VILE



di Alberto Prunetti - da www.carmillaonline.com

Italia, nordest, febbraio 2007. Giuliano Bruno è un liceale antifascista. Di ritorno da una manifestazione a Treviso viene aggredito e picchiato da un gruppo di Skinheads neofascisti.
Giuliano non esce più di casa, ha paura.
Da quell’episodio passano alcuni giorni, gli amici lo invitano a uscire. Partono in macchina, vanno verso il centro di Treviso, uno di loro scende, va in cerca di un altro compagno. Poi torna e dice a Giuliano: "Non uscire! Stanno arrivando gli Skinheads!" Arrivano. Aprono la porta della macchina. Giuliano è rimasto dentro assieme a un altro ragazzo. Gli chiedono: "Sei Giuliano Bruno?". "Sì, sono io".
Lo colpiscono con violenza in testa. L'amico prova a difenderlo. Gli rompono il naso.

Dopo la seconda aggressione Giuliano lascia la scuola, non vuole più stare nel trevigiano. Comincia a vagabondare per l’Europa. Partecipa alla manifestazione contro il G8 di Haligendamm, in Germania. Torna in Italia, trova alcuni lavori occasionali. Poi riprende a studiare, questa volta a Trieste.

La mattina del 5 maggio 2008 lo trovano a terra, sotto casa sua. Suicida.

Da Buenos Aires a Treviso

La famiglia di Giuliano Bruno era riparata in Europa negli anni Settanta per sfuggire alla dittatura pseudo-fascista argentina. La storia di Giuliano si lega a quella di suo nonno, Osvaldo Bayer, uno dei più noti scrittori argentini.

"Mi davano 24 ore di tempo per lasciare il paese altrimenti ero un uomo morto…". Così Osvaldo Bayer, nato a Santa Fe, Argentina, nel 1927, mi raccontava la storia della sua condanna a morte, pubblicata su un giornale di Buenos Aires e sentenziata da un gruppo clandestino di estrema destra nel 1974. All’epoca dell’intervista, poi pubblicata su Il Manifesto, ero andato a trovarlo a casa sua, nel quartiere Belgrano, in quella casa d’angolo della città rioplatense che il suo amico Osvaldo Soriano, eterno provocatore, definiva un tugurio. Era l’autunno del 2005 e Buenos Aires mi veniva incontro con le parole di questo vecchio con la barba bianca e lunga, autore del romanzo “Severino Di Giovanni” (1970), della "Patagonia Rebelde" (1972, di prossima uscita in italiano per l'editrice Elèuthera) e, in tempi più recenti, di “Rayner y Minou” (2001).

L’idea era quella di farmi raccontare da Osvaldo la sua vita e le ricerche storiche dedicate all’emigrazione politica italiana, che lo avevano portato a scrivere libri stupendi, opere tanto radicali che i militari — conquistato il potere a Buenos Aires con un colpo di stato negli anni Settanta — non si accontentarono di costringerne l’autore all’esilio, ma arrivarono a dare alle fiamme ogni esemplare che riuscivano a rastrellare. Infine, perché la misura fosse colma, proibirono il film tratto da un romanzo di Osvaldo e che lui stesso aveva sceneggiato, la “Patagonia rebelde”, di Héctor Olivera, Orso d’argento a Berlino eppure proibito in patria con tanto di persecuzioni rivolte contro tutto lo staff, incluse le comparse. Eccessi argentini sembravano a quei tempi, quando io e Osvaldo discorrevamo di tempi passati e lontane persecuzioni.

Ricordo che mi sentii indiscreto quando, parlando dello scrittore desaparecido Rodolfo Walsh, mi venne da chiedere un dettaglio troppo forte sulla sua morte. Le lacrime che per un attimo bagnarono gli occhi di Osvaldo non turbarono la sua lucidità, perché lui stesso, come Walsh, si è fatto carico di scrivere in tempi difficili.

Eppure Osvaldo, costretto alla fuga, obbligato a nascondersi in casa di anarchici, sempre pronto a organizzare progetti di cospirazioni contro le dittature — come quella volta che organizzò assieme a Soriano e García Márquez il progetto, poi rimasto sulla carta, di un ritorno in massa di intellettuali esuli latinoamericani — non avrebbe pensato, in quella tranquilla mattina portegna, di dover ancora una volta scrivere parole tanto amare. Ancora scrivere di perseguitati, di ammazzati, di amici costretti al suicidio per sfuggire alle torture, per bere da soli il calice amaro di un’epoca vigliacca. È il violento “oficio de escribir, amigo”, gli avrebbe ricordato Walsh. La testimonianza di scrivere, di farsi violenza a scrivere, di scrivere su fatti violenti. Un’epoca che sembrava chiusa e che invece costringe Osvaldo, a cui le Madres de Plaza de Mayo hanno dedicato il loro caffè letterario, a scrivere ancora, a riempire d’inchiostro quelle pagine bianche che ogni mattina, alle sei in punto, cominciano a presentarsi sulla sua scrivania.

Ma questa volta il compito è più amaro. Perché il giovane rebelde, una figura che ricompare in tante pagine dell’opera di Osvaldo, non è un anarchico nato un secolo fa, né un martire di un’idea che arriva a Baires dai barconi transoceanici. Questa volta Osvaldo scrive di suo nipote, di Giuliano Bruno, il figlio di sua figlia Ana, che ancora piccola lui fece montare in fretta e furia su un aereo diretto in Europa perché non conoscesse gli orrori e le violenze orchestrate da un gruppo di fascisti con in mano le redini dello stato. Tragico paradosso e lugubre scherzo del destino, quello che ha portato il giovane rebelde in questa Italia che da terra d’accoglienza per gli esuli e i rifugiati politici si fa spazio di persecuzione.

Perché Giuliano Bruno non è stato ammazzato come Carlo Giuliani, né come Nicola Tommasoli. Non è morto neanche come quel rumeno di cui nessuno ricorda più il nome — forse perché gli stranieri in questo paese sono privati anche del loro nome — e che è cascato dalla finestra di una questura, o forse era la tromba delle scale, e tanto chi se ne frega, diranno i giornali che a questa notizia non dedicano quasi neanche un trafiletto. Giuliano Bruno è morto respirando ogni giorno quest’atmosfera che viviamo in Italia, questo misto di nebbia di Weimar, di paura argentina e di grottesca farsa italiota. Condita dai pogrom e dai rigurgiti neorazzisti, dagli assalti delle teste rasate, dall’intolleranza verso tutto ciò che non sia la voglia di fregare il prossimo per comprarsi il Suv. Un’epoca agra e triste, una “mala notte” a cui Giuliano ha reagito con l’ultimo gesto del ribelle, quello che rivendica il proprio diritto di secessione da un mondo tanto vile e letale.

Segnalato da Gino Paccione

DATTI ALL'ETICA!



di Alessandro Robecchi da il Manifesto

Sono veramente spiaciuto di essermi perso il convegno sull'etica dell'impresa organizzato da Barbara Berlusconi, presente Veronica Berlusconi: a quell'ora stavo colpevolmente andando a lavorare. Ho letto cronache e resoconti con apprensione, perché temevo che sui giornali l'accostamento di due parole come «etica» e «Berlusconi» provocasse la combustione delle pagine e forse, un domani, la fine del mondo. Mi sono fatto forza: i leoni che tengono alle gazzelle un seminario sulla corretta alimentazione è sempre uno spettacolo interessante. Organizzatrice: Barbara Berlusconi, così giovane e priva di mezzi che dev'essere stato per lei un vero eroismo organizzare un convegno. Relatori: il professore dell'Università San Raffaele, un dipendente del gruppo di famiglia (vicepresidente della Mondatori, il presidente è la sorella di Barbara) e il titolare della cattedra Lehman Brothers di finanza aziendale della Bocconi. Seduto al tavolo della presidenza, il giovane La Russa, figlio del ministro della difesa, in platea un Ligresti Junior. Al centro della scena, Barbara e Veronica Berlusconi, rapite ed estasiate dal vento filosofico che spirava dal palco. Due eleganti signore sedute su una montagna di miliardi fatti con un'etica che i tribunali non possono discutere grazie al lodo Alfano, o magari caduta in prescrizione. A un potere conquistato con l'etica giornalistica di certi titoli de Il Giornale o con i telegiornali di famiglia. La prestigiosa Università Bocconi ospita e benedice. Il Corriere della Sera fa da cinegiornale stile anni Trenta. E l'etica? Ah, sì: Barbara Berlusconi ha fatto sapere di essere contraria al falso in bilancio. Wow! Non so se riuscirò a sopravvivere a tanta etica!

lunedì 6 ottobre 2008

SCIOPERO GENERALE DELLA SCUOLA PUBBLICA





A tutto il personale docente e A.T.A.
appello alla mobilitazione
PER LA SCUOLA PUBBLICA

Il “Piano per la scuola” dei Ministri Gelmini e Tremonti

• La scuola dell’Infanzia (materna): si ridurrà al solo turno antimeridiano dalle 8,30 alle 12,30
• La scuola Primaria (elementare): si regredisce al maestro unico e si ridurrà l’orario settimanale da 30 a 24 ore. Viene eliminato il Tempo Pieno (40 ore settimanali, 2 ore di compresenza settimanali, 2 insegnanti, orario scolastico 8,30- 16,30). La diminuzione di ore di scuola porta al “risparmio” di 87.000 insegnanti, compresi gli specialisti di lingua inglese.
• In tutti gli ordini di scuola: si sta programmando un taglio di oltre 2.000 scuole nel Paese (quelle sottodimensionate con meno di 500 alunni) che porterà ad aumentare studenti ed alunni pendolari, con grandi spese di trasporto, fatiche e disagi per bambini e studenti.
• In tutti gli ordini di scuola: aumento di 3 o 4 alunni per classe. La legge n° 133/2008 prevede che aumenti di 1 punto il rapporto tra docenti e alunni (così si “risparmiano” 72.000 posti e 12.000 classi).
• In tutti gli ordini di scuola: si taglia il 17% (44.500) del personale non docente.
• Nelle scuole secondarie di I grado (medie): viene ridotto il Tempo Prolungato (36 ore). Si riduce a 29 ore settimanali (dalle 32/33 ore attuali) il tempo normale (con questa misura è previsto il “risparmio” di 24.000 docenti).
• Nelle scuole secondarie di II grado (superiori): viene generalmente ridotto l’orario in tutti gli indirizzi, negli istituti Tecnici e Professionali si passerà dalle 36/38/40 ore alle 32 settimanali. Nei licei si passerà a 30 ore settimanali (in totale questa misura prevede un primo taglio di 14.000 posti da docente).
• Razionalizzazione corsi serali e per adulti (1.500 docenti).
• Riconduzione a 18 ore di tutte le cattedre ed eliminazione clausola di salvaguardia (7.000 docenti)
• Riduzione del 30% degli Insegnanti Tecnico Pratici (laboratorio)

Con questi provvedimenti si prevede complessivamente
il taglio di oltre 200.000 posti nella scuola italiana

• CONTRO I LICENZIAMENTI
• CONTRO IL RISCHIO DI SOVRANNUMERARIETÀ
• CONTRO IL MAESTRO UNICO
SCIOPERO GENERALE venerdì 17 ottobre 2008 - ROMA

PER UNA SCUOLA CAPACE DI FUTURO



di Davide Rossi, segretario SISA – Sindacato Indipendente Scuola Ambiente – www.sisascuola.it

Un cittadino italiano, non solo un lavoratore della scuola, uno studente o un genitore, ha facilità a comprendere che è difficile parlare per la scuola di novità e cambiamenti, prima ancora che di riforme, se le novità coincidono con un taglio di 8 miliardi (non milioni!) di euro del bilancio dell'istruzione e una sforbiciata di almeno 140mila posti tra docenti e personale amministrativo, tecnico e ausiliario, con la ricaduta immediata di avere classi da oltre 30 alunni e decretando la morte delle scuole dei piccoli comuni.


Per altro lo stesso governo ha fatto una doppia ammissione che lo discredita da solo, la prima è l'ammissione del livello miserevole degli stipendi dei lavoratori del settore, la seconda ammette che il 97% del bilancio dell'istruzione è destinato ai salari. La conseguenza logica, anche per il più sprovveduto tra gli amministratori, sarebbe quella di aumentare il bilancio della scuola, qualificarne le retribuzioni e quindi, solo dopo, avviare un progetto di riorganizzazione del sistema, che altrimenti, è evidente, risulterebbe una mera operazione di cassa.

Tuttavia la situazione è forse più grave, perché dietro la logica “risparmista” mossa contro la scuola, mentre ad esempio in campo militare il governo Berlusconi spende e acquista nuova tecnologia di guerra a prezzi superiori ai tagli promessi dall'avvocatessa Gelmini, si paventa un attacco complessivo, oserei dire sistemico, alla scuola pubblica sancita dalla Costituzione Italiana.

È evidente che la logica del ministro dell'Istruzione è quella di dequalificare, per gradi ma con scientifica meticolosità, la scuola pubblica, favorendo nei fatti le scuole private. Il tempo pieno alle elementari verrà sì garantito dal maestro unico, ma affiancato da giovani volontari del tutto inesperti e sottopagati per le 16 ore rimanenti da “riempire” alla meno peggio. Per altro la reinvenzione della “maestra mamma” è in totale antitesi con la maturazione professionale dei docenti elementari impegnati da anni in ambiti disciplinari specifici, un percorso intrapreso da venti anni contro la logica del docente “tuttologo” decisamente superata.

Facile allora prevedere che nelle grandi città chi potrà permetterselo cercherà di mandare i figli in scuole, ovviamente private, in cui il tempo pieno non sia garantito dai volontari, ma da due insegnanti come ancora avviene per il momento in tutta la penisola, altri indirizzeranno i figli nella scuola media o superiore, ancora una volta privata, in cui le classi non siano composte da una trentina di ragazzi ammassati, ma in cui una ventina di ragazzi possano avere modo di essere meglio seguiti, magari ritrovando lo spazio e i tempi per la relazione educativa.

In poche parole il governo vuole equiparare le scuole pubbliche e quelle private, diminuendo i fondi per le prime e aumentando, contro la Costituzione, i fondi per le seconde, permettendo tuttavia alle seconde di non essere vittime dei nuovi modelli organizzativi penalizzanti. Direbbe don Milani che è un modo neppure tanto subdolo di “fare parti uguali tra diseguali”, accrescendo la disuguaglianza e inventando d'ufficio scuole di serie A e di serie B.

Ugualmente i piccoli comuni, la maggior parte degli ottomila della Repubblica Italiana, rischiano di vedere chiuse le scuole pubbliche e al massimo assistere all'apertura di scuole - negli stessi edifici chiusi d'ufficio dal ministro Gelmini - di natura confessionale o confindustriale. Per i piccoli comuni, spesso con cinque classi per 50 alunni alle elementari e tre classi per 30 alunni alle medie, da anni avanzo la proposta del modello francese. Queste scuole, fondamentali per il tessuto sociale delle piccole città, siano tenute aperte con un contributo al 50% delle spese totali, stipendi compresi, da parte delle regioni e delle amministrazioni locali. Le regioni, che hanno gravi e grandi responsabilità, vorrebbero mettere mano ai programmi, al nord ad esempio per “padanizzarli” o sull'istruzione professionale, con il proposito di mettersi in combutta con i più vari e più o meno seri imprenditori per “guadagnarci”. Questo stile spesso piratesco delle regioni è molto poco europeo e nulla ha con un coinvolgimento serio, come sarebbe ad esempio la garanzia di un sostegno economico alle scuole elementari e medie dei piccoli centri.

I progetti del governo, di cui il ministro Gelmini è un semplice terminale operativo, sono quindi di portata devastante, con il chiaro obiettivo di non rispettare le indicazioni provenienti da tutte le organizzazioni internazionali preposte alla promozione della scolarità e dei saperi.

Ai cittadini tutti si pone allora il problema di come rispondere, come difendersi, come risultare propositivi, anche perché sempre più e a ragione la società italiana chiede idee alternative, non semplici no.

In questo senso i movimenti di lotta, le occupazioni, gli scioperi, le manifestazioni, oramai quasi giornaliere, hanno un valore non solo di contestazione, ma anche fortemente propositivo, perché ci si ritrova insieme, si parla e si discute, si riannoda il filo, da troppo tempo smarrito, di un impegno per la scuola di tutti.

Ogni giorno si fa più chiara la necessità di una scuola in cui i saperi siano il risultato di una ricerca e di una costruzione in cui gli studenti siano attivi, partecipi e protagonisti e non passivi recettori, si fa strada la convinzione che solo la libertà d'insegnamento dei docenti e la libertà d'apprendimento degli studenti possano essere gli strumenti regolatori del fare scuola.

Certo occorrono investimenti, fiducia, nuova consapevolezza del ruolo e della necessità dei saperi per il domani. È un percorso lungo e articolato, non immediato, Gelmini e soci hanno deliberatamente avviato un processo di dismissione della scuola pubblica che ha solo due esiti possibili, la sua vittoria e il regresso civile e sociale del paese, oppure la sua sconfitta e l'apertura di nuovi scenari oggi difficilmente ipotizzabili, ma ragionevolmente volti ad una scuola italiana che torni ad essere capace di futuro.

sabato 4 ottobre 2008

L’OPPOSIZIONE E' NELLE NOSTRE MANI



UN’ALTRA POLITICA PER UN’ALTRA ITALIA
www.11ottobreinpiazza.org

11 OTTOBRE ROMA ORE 14 P.ZZA REPUBBLICA

Contro governo e Confindustria

1 Pace e disarmo di fronte a tutti i rischi di guerra.
Ridare prospettiva a un ruolo dell’Europa per mettere fine
all’unilateralismo dell’amministrazione Bush. Fine dell’occupazione
in Iraq e ritiro dei nostri militari dall’Afghanistan.

2 Difesa di retribuzioni e pensioni falcidiate dal caro vita.
Di fronte alla piaga degli “omicidi bianchi” intensificare i controlli
e imporre l’applicazione delle sanzioni alle imprese. Difesa
dei contratti di lavoro dall’attacco della Confindustria.
Lotta al precariato e al lavoro nero.

3 Respingere l’attacco alla scuola pubblica, all’Università,
alla ricerca e alla cultura, al servizio sanitario nazionale.

4 Contrastare la violenza degli uomini contro le donne,
riconoscendo il valore politico della lotta alle forme di dominio
patriarcale, dell’autodeterminazione delle donne e della libertà
femminile.

5 Sostenere il valore della laicità dello Stato e riconoscere piena
cittadinanza alle richieste dei movimenti Gay Lesbici Trans Queer
e a quelle relative alla scelta del proprio destino biologico.

6 Sostenere le vertenze territoriali (No Tav, No Dal Molin, ecc.),
a partire dai temi ambientali, dalla salute e dai beni comuni,
prima fra tutti l’acqua. Sostenere la ripresa del movimento
antinucleare ed una nuova politica energetica.

7 Contrastare le tentazioni autoritarie volte a negare o limitare
libertà democratiche e civili, a partire dalla giustizia, comunicazione
e libertà di stampa.

8 No al razzismo.

venerdì 3 ottobre 2008

L'ITALIA POTENTE CHE AMA IL RAZZISMO



di Piero Sansonetti - da Liberazione

Non sappiamo più come trattarle, queste notizie. Ogni giorno, ogni giorno: un ragazzo africano picchiato, un cinese, un arabo, magari ridotto in fin di vita, magari ucciso. Fino agli episodi estremi, come quello di Castelvolturno, dove sono stati massacrati sei neri, a raffiche di mitra, e il giorno dopo i giornali invece di parlare di strage razzista, di nazi-camorrismo, e invece di raccontarci le vite, le storie, le famiglie, le speranze e i dolori delle sei vittime (come avrebbero fatto in ogni caso se i ragazzi uccisi fossero stati bianchi) sono andati a scavare nel loro passato, a cercare di dimostrare che erano anche loro criminali, hanno parlato di regolamenti di conti, hanno infamato i morti: che schifezza!
Le notizie di ieri, se non ce ne sfugge qualcun'altra, sono due. La prima è l'aggressione contro un senegalese a Milano, da parte di due italiani con le mazze da baseball, la seconda è il pestaggio di un ragazzo cinese da parte di una gang di cinque o sei razzisti, a Roma, quartiere di Tor Bella Monaca. Noi stiamo abituandoci a questi episodi, che solo qualche anno fa erano isolatissimi, condannati da tutti, suscitavano sdegno. Il razzismo di massa nasce esattamente così: dall'abitudine, dal senso comune che finisce per considerare routine il pestaggio degli stranieri, la discriminazione, persino l'uccisione.
Ragioniamo un attimo sugli ultimi episodi. L'esecuzione di Abba, a Milano, e la strage di Castelvolturno. Come ha reagito il «vertice» della società italiana? Nel primo caso affannandosi a giurare che non era un omicidio razzista. Lo hanno fatto i giudici, lo hanno fatto i giornali, lo hanno fatto decine di leader politici. Nel secondo caso riducendo l'episodio ai minimi termini, inserendolo in una discussione dove veniva messo sotto accusa più l'eccesso di immigrazione clandestina che non l'efferatezza del delitto. Sarebbe come se dopo l'11 settembre qualcuno avesse detto: si certo, hanno fatto male i terroristi, però anche quei grattacieli così alti sono proprio fastidiosi...
In questo modo la stampa e quasi tutto il mondo politico si stanno assumendo la responsabilità della crescita del razzismo. Bisogna che noi reagiamo. Cominciamo da domani, andando in tantissimi alle manifestazioni di Roma, Caserta e Parma.

giovedì 2 ottobre 2008

IL VENTENNIO DI BERLUSCONI



di Alberto Asor Rosa - da il Manifesto

Nel corso dell'estate, sottovalutando il rischio che il solleone avesse ulteriormente infrollito il già scarso acume dei commentatori politici e giornalistici italiani, ho pubblicato sul questo giornale (6 agosto) un articolo («Più del fascismo»), in cui mi sforzavo di collocare Berlusconi e il berlusconismo nel solco della storia italiana contemporanea. Apriti cielo: quali analogie ci possono essere mai tra Berlusconi e Mussolini, tra berlusconismo e fascismo? Ovviamente nessuna: non sono mica scemo. Io non ho inteso - e non ho scritto - che Berlusconi è come Mussolini né che il berlusconismo è come il fascismo: io ho inteso, e scritto che - nella specificità e peculiarità delle rispettive identità - sono peggio . Di questo inviterei a discutere, non delle fittizie (e talvolta tendenziose letture) che di quel testo sono state date. Per favorire tale (peraltro improbabile) obiettivo aggiungerei qualche argomento al già detto. Richiamo l'attenzione (se c'è ancora qualcuno disposto a prestarmene) sull'«incipit» di quell'articolo: «Il terzo governo Berlusconi rappresenta il punto più basso nella storia d'Italia dall'Unità in poi». Di questa frase è soggetto implicito l'Italia: certo, soggetto in sé astratto, difficile da definire, come tutti quelli che se ne sono occupati sanno, connotato tuttavia, nonostante tutto, da una storia e da alcuni dati identitari comuni di lunga durata; ancora più astratto, forse, ma ancor più ancorato a una storia e ad alcuni dati identitari comuni, se consideriamo l'Italia sotto specie di Nazione («dall'Unità in poi...», appunto), ossia di quel conglomerato di fattori politico-ideal-istituzionali, di cui ci apprestiamo a celebrare (2011) il 150˚ anniversario, proprio nel momento in cui - questo è ciò che sostengo - quel conglomerato sembra in fase di dissoluzione. Ebbene, per valutare a che punto è arrivato tale processo, e anche per operarne alcuni confronti sul piano storico (storico, ripeto, non etico-politico), bisognerà individuare alcuni indicatori, che ci facciano capir meglio di cosa stiamo parlando. Parliamo una volta tanto, se siamo d'accordo su questo punto di partenza, dell'Italia, più esattamente dell'Italia come nazione (altri punti di vista ovviamente sono legittimi e possibili; quello di «classe» ovviamente non ci è estraneo, ma noi questa volta, per l'eccezionalità della situazione in cui ci troviamo, riteniamo preferibile questo). Poiché si parla dell'Italia, e dell'Italia come nazione, pare a me che gli indicatori fondamentali non possano che essere questi tre: l' unità (e il senso dell'unità), il rapporto del cittadino con l e istituzioni (e cioè, anche, il senso della distinzione tra pubblico e privato) e il rapporto del presente con la tradizione italiana (e cioè il senso dell'identità e dell'appartenenza nazionali). Da tutti e tre questi punti di vista il berlusconismo è peggio del fascismo, o per lo meno si sforza tenacemente di esserlo. Dal punto di vista dell' unità la fondatezza di tale affermazione è lampante. Nel governo Berlusconi siede come ministro delle riforme (!) un signore il quale si batte fieramente (ed esplicitamente) per la disarticolazione e frammentazione dell'unità politicoeconomico-istituzionale e identitaria del paese. Si tratta di un processo, evidentemente: ma che diffonde una cultura politica e un senso comune avversi a tutte le definizioni topiche dell'essere «italiano» . Il berlusconismo ingloba questa fenomenologia e la fa propria; se non altro perché al presidente del consiglio unità o non unità nazionali sono del tutto indifferenti, purché la macchina del potere resti tutta in ogni caso nelle sue mani. Secondo indicatore: il rapporto del cittadino con le istituzioni non è mai - ripeto, mai - stato così mortificato dal punto di vista della prevalenza degli interessi privati su quelli pubblici. Ovviamente una dittatura tutela comunque i suoi esponenti dalle eventuali contestazioni pubbliche. Ma nessuna dittatura europea del Novecento (e dunque neanche il fascismo) ha fatto dell'interesse privato del leader (e dei suoi accoliti) il fulcro intorno a cui far ruotare l'elaborazione e la promulgazione delle leggi e persino l'esercizio della giustizia. Lo «Stato etico» rappresenta senza ombra di dubbio una torsione intollerabile nella lunga e tormentata storia dello «Stato di diritto» moderno. Ma il livello di corruzione (inteso il termine anche questa volta in senso puramente fatturale: come un aspetto, una forma, una modalità della macchina del potere) raggiunto dal berlusconismo non trova eguali nell'esercizio fascista delle istituzioni e del potere, almeno formalmente rimasto al rispetto o addirittura all'esaltazione della legge, per quanto dispotica (naturalmente sarebbe troppo ingeneroso arrivare a contrapporre ad Alfano e Ghedini le figure di Rocco e Gentile...). Nel terzo indicatore precipitano e si moltiplicano tutte le nefaste conseguenze degli altri due. Il fascismo ebbe con la tradizione italiana un rapporto distorto ma vistoso: volle ristabilire a modo suo (un modo esecrabile, non ci sarebbe bisogno di dirlo da parte mia) la continuità con il Risorgimento, vanificata e interrotta secondo lui dalla tarda, sconnessa e impotente esperienza liberale. Il berlusconismo non ha nessun rapporto, né buono né cattivo, con la tradizione italiana: il suo eroe eponimo è un homo novus che spinge ai limiti estremi la sua totale mancanza di radici, in sostanza niente di più di un abile affarista, che usa il pubblico per incrementare e proteggere il suo privato e il privato per possedere senza limitazioni il pubblico. Tutto ciò che ha a che fare con etica e politica dello Stato di diritto moderno gli è estraneo. Ha tratto anche lui la sua forza dall'impotente declino e dalla irreversibile crisi di questo regime liberal-democratico: nasce cioè e vive da una corruzione, non da una reazione, come invece presunse di fare il fascismo (da intendersi anche in questo caso ambedue i termini in senso politico-istituzionale, non etico-politico). Ora, nella storia italiana post-unitaria, di cui si diceva, è innegabile che a fondare il nocciolo più duraturo della nazione siano stati il Risorgimento prima e la Resistenza poi: da considerare quest'ultima - come fu da molti protagonisti di diverse parti politiche e ideali considerata - una realizzazione più avanzata ma consequenziale del primo. Ma se al Cavaliere nulla importa dei valori di democrazia e del rispetto delle regole (Carta Costituzionale, separazione dei poteri, rapporto elettori-istituzioni, ecc.), cosa dovrebbe importargli non dico della Resistenza, ma dello stesso Risorgimento, che bene o male ha fondato unità e identità italiane nazionali e dato inizio al processo di costruzione di una società (sia pure limitatamente) democratica nel rispetto delle regole? La «rottura storica», alla quale egli, senza sforzo e senza neanche pensarci, si sottrae, non è quella del 1945, è quella del 1861-1870: Cavour è più lontano da lui di Palrmiro Togliatti. Rispondiamo ora, per andare verso la conclusione, all'ultima, più insidiosa e forse più legittima obiezione al nostro ragionamento precedente: si può comparare una democrazia (quale che sia) a una dittatura, arrivando alla conclusione che la democrazia è peggiore della dittatura? Mah, non lo so. Non vedo però che cosa ci sia di male a tentare un confronto, se non altro per capire meglio cosa ci sta accadendo oggi (non è così che si formano i parametri di giudizio storici?). Il fascismo è stato «il male assoluto»? Proviamo a pensare cosa sia per essere e per produrre il «male relativo» nel quale noi attualmente viviamo: «male relativo», ma endemico, profondo, penetrato in tutte le fibre. Quel che mi sembra di vedere dal mio angolo visuale è la crescita di una sorta di dittatura (De Mauro: «governo autoritario, in cui il potere è concentrato nelle mani di uno solo»), ma di tipo nuovo, democratico-populista, fondata non sulla violenza e sulla coercizione esplicite ma sul consenso (come faceva, a modo suo, anche il fascismo...) ed esercitata con un astuto, davvero inedito in Europa mix di suggestioni mediatiche, stravolgimenti istituzionali e intermediazioni affaristiche. Il «modello» - che, come tutti i modelli forti, è politico, culturale e persino antropologico - sta penetrando in profondità e sta facendo fuori la continuità storica su cui si sono fondati finora l'identità e i valori «italiani» al cospetto del mondo. Alla fine del processo non ci sarà una nazione (pur nei limiti ben noti in cui tale processo si è sviluppato nei centocinquant'anni che ci stanno alle spalle) ma solo un mero aggregato di stati-vassalli (di varia natura: economici, corporativi, regionali, ecc.), che troveranno la loro unità unicamente nel fare riferimento al solo Capo. Per questo, - non per motivi più tecnici e circoscritti, come qualcuno cede alla tentazione di argomentare, lasciandosi cullare dal sogno delle «riforme condivise» - vanno fatte fuori le articolazioni finora più autonome e indipendenti dello stato, in primissimo luogo la magistratura e la scuola: esse, infatti, in questo momento, per il solo fatto di conservare la loro indipendenza, costituiscono l'ostacolo maggiore alla compiuta realizzazione di tale disegno (naturalmente, mi rendo conto che, se le cose stanno come dico, la parte più interessante del discorso consisterebbe nel chiedersi come mai tale disegno distruttivo proceda attraverso il consenso: ma cosa sia diventato il popolo italiano in questi ultimi vent'anni, a cosa aspiri, in cosa creda, merita un discorso a parte, che prende ancora più di petto la politica, e che forse un giorno faremo). La conclusione, cui pervenivo nel mio precedente articolo, va oggi ribadita: per quanto non esista in Italia forza politica, uomo politico, in grado attualmente d'intenderla e di praticarla. Per combattere un simile flagello ci vorrebbe un partito, un movimento, un'opzione al tempo stesso politica e culturale, capaci di coniugare la difesa della patria-nazione con quella degli strati più nuovi, più reattivi e più a rischio della società italiana contemporanea (molto a rischio: alla catastrofe nazionale s'accompagnerà, non c'è ombra di dubbio, la catastrofe economico-sociale). Ma dov'è? E, visto che non c'è, quanto ci metterà per nascere, o rinascere? P.S. Il modo migliore di manifestare solidarietà a un giornale è di scriverci sopra. Aggiungerò che i rischi che corre attualmente una testata come il Manifesto rappresentano la manifestazione esemplare di quanto avviene in Italia e che ho cercato di descrivere nelle righe precedenti. Il lettore tiri le somme e saprà cosa fare.