venerdì 10 ottobre 2008

SENZA LA SCUOLA PUBBLICA NON SAREI UNA SCRITTRICE



di Valeria Parrella - da Liberazione

Ho fatto una scuola pubblica e le sono grata. Ho avuto insegnanti decenti e insegnanti indecenti, poi ho avuto insegnanti straordinari. Quelli sono stati il punto di riferimento da cui è partita l'analisi del mondo, da cui è partito tutto. All'università i libri guidano, le bibliografie sono il sentiero lungo cui scorrere. Alle elementari, alle medie, al liceo i libri non dicono nulla da soli: hanno bisogno del cantore, dell'esegeta, di quello che ti incoraggia ad aprirli. Questo sono gli insegnanti.
Io sono una mancata insegnante. Sono laureata in lettere classiche ma ci ho messo tanto tempo a laurearmi che ho perso l'ultimo concorso. La maggior parte delle mie amiche ha fatto quel concorso, qualcuna ci ha aggiunto la famigerata Sis, molte sono emigrate. Il Piemonte, la Lombardia, il Veneto, dove le graduatorie potevano accoglierle. Io ho vicariato questo impegno mancato della mia vita con i racconti, poi con il romanzo: ovunque mi sono immaginata insegnante, ovunque ho attinto dai racconti che mi sono cari più di tutti: quelli che vengono dalle aule, quelli che fanno presagire dei destini, delle vite, dei cittadini nuovi. Mio padre è un'insegnante e non riesce ad andare in pensione. Studia tutti i giorni, il suo lavoro non finisce mai: è la sua esistenza, l'impegno soggettivo della mattina, il riscontro dei ragazzi tutta la sua vita. Certe cose si ereditano. La gioia, la passione della scuola pubblica, gratuita, laica - e nei migliori casi laicista -, la "livella" di Totò, quelle medie in cui ti trovi ad avere a che fare con tutti i tipi di società, senza poterti rifugiare nel tuo, e quindi potendo imparare da ognuno, dovendoti confrontare con ognuno.
Io devo tutto allo studio: senza quello che ho studiato non sarei nulla. Il contatto con i compagni mi ha sempre commossa, ha scardinato il mondo chiuso nel quale mi intristivo già da piccola. Le mie attuali amiche - ho trentacinque anni - quelle di cui mi fido e su cui conto e per le quali tremo come per me stessa, sono le mie compagne di liceo. Le mie prime sfide sono state contro i professori che non ritenevo degni, i miei primi applausi li cercavo in quelli di essi che stimavo. Alle medie avevo un'insegnante di italiano illuminata, e una di storia e geografia retrò: con la prima tenevamo il grembiule sotto il banco e con la seconda lo indossavamo: la mia prima gestione del potere l'ho imparata così. Per anni per me la scuola è stata "Lo Stato", l'appartenenza, il dovere, quello felice perché giusto. Senza la scuola pubblica italiana non sarei nulla, non sarei una scrittrice, non starei scrivendo ora in nome di Tommaso, professore di storia e filosofia che corre in questi giorni da un istituto all'altro per "colmare" le ore. In nome di Paola professoressa di lettere che si sveglia alle sei e parte con il bimbo di un anno dalla periferia di Napoli, raggiunge il centro, poi lascia il bambino alla materna, poi corre in classe a lavorare sul sostegno.
Senza la scuola che ho fatto, che mi ha fatto, non potrei dire ora in maniera sincera e profonda, come lo sento, che disprezzo e deploro il comportamento del ministro dell'Istruzione, che indico nel disfacimento della scuola pubblica, nella considerazione bassa che si ha degli insegnanti, la morte della nostra società. Qualunque ministro si erga al di sopra della Scuola Italiana compie un crimine contro lo Stato, contro me stessa, contro mio figlio e si destituisce immediatamente di qualunque ragion d'essere.

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